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Entertainment / Tips
Ott 9 - 2022
Tempo di lettura: 2'

Consigli non richiesti

Scorri Netflix, scrolla il Kindle, cerca quanto vuoi: arriva sempre il momento che non trovi niente di bello e ti rassegni. Decidi allora di ascoltare la musica, ma le tue rodatissime playlist hanno iniziato a darti la nausea. Capita a tutti noi.
Ecco allora una piccola e rapida selezione di cose che meritano di essere viste, lette, ascoltate. Consigli non richiesti, talvolta disordinati e magari discutibili, ma validi per una ragione fondamentale: hanno lasciato un segno in qualcuno di noi. E chissà che non lo lascino anche a te.

Partiamo da lontano. Partiamo dalle origini.
I nostri primi consigli non richiesti parlano di noi, di punk e birrette, di film cult di una generazione, ma anche di uscite recenti che rispecchiano lo spirito da cui siamo nati.
Buon divertimento.

MUSICA

Operation Ivy, Energy, 1989

Unico disco in studio della band ska punk che ha definito l’East Bay Sound e lanciato un’intera scena musicale.
Fun fact. Il chitarrista e il bassista erano Matt Freeman e Tim Armstrong: amici d’infanzia che dopo questa band hanno fondato i Rancid.

MUSICA

Johnny Cash, American Recordings, 1994

Quando si sparse la voce che Cash e Rick Rubin (ndr: è il produttore che ha scoperto i Beastie Boys) stavano facendo questo album, il cantante dei Misfits Glenn Danzig scrisse un pezzo in 20 minuti apposta per loro.Una storia pazzesca per un disco imperdibile.

LIBRO

Do What You Want: the story of Bad Religion, 2020

Il titolo recita “Fai come vuoi”. E voi, ovviamente, fate quel che preferite. Ma non leggere questo libro sarebbe un vero peccato.

FILM

This Is England, 2006

Un giovane orfano diventa amico di una gang di skinhead nell’Inghilterra degli anni Ottanta. Parliamo di Dr. Martens, bomber, comunità e emozioni forti, raccontate benissimo. Da recuperare (si trova su YouTube!).

SERIE TV

Sons of Anarchy, 2008

Una saga lunga sette stagioni in cui evadere per catapultarsi dentro una band di motociclisti della California. Per anni su Netflix, ora è disponibile su Disney+.

La selezione di questi consigli è a cura di Edo.

Entertainment / Tips
Mar 28 - 2024
Tempo di lettura: 4'

Come stare al passo con l’IA? Ecco le voci da seguire

Entra nel cuore dell’innovazione ascoltando le voci e le opinioni che stanno plasmando il nostro futuro. Scopri chi seguire e… Tieni il passo con le ultime novità!

Nel frenetico mondo dell’intelligenza artificiale, restare al passo è un elemento imprescindibile per la crescita professionale. Ma con la moltitudine di canali e fonti che esistono là fuori, scegliere le voci che valgono può diventare una ricerca impegnativa e far perdere molto tempo.

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Letture e ascolti: ecco la nostra lista

Per rispondere a questa esigenza di restare aggiornati, abbiamo rintracciato voci autorevoli provenienti da varie industrie, culture e discipline. Perché crediamo che sia cruciale diversificare le fonti per esplorare notizie e conoscenze sempre fresche.

Ecco, quindi, la nostra lista di persone e podcast che fareste bene a seguire se siete desiderosi – come noi – di esplorare le ultime innovazioni nel campo dell’intelligenza artificiale.

VISIONARI CAPACI DI INFLUENZARE IL FUTURO

Geoff Hinton: Il Padre del Deep Learning

Perché seguirlo? Il lavoro innovativo di Hinton sulle reti neurali e sull’IA ha aperto la strada per l’apprendimento automatico contemporaneo. Ex Google, Hinton rimane oggi al timone del futuro dell’AI.
Dove seguirlo? Su YouTube, sul suo feed su X/Twitter e attraverso le sue pubblicazioni su Google Scholar.

 

Andrej Karpathy: tra AI e società

Perché seguirlo? Precedentemente Direttore dell’IA in Tesla e membro del team fondatore di OpenAI, Karpathy ha uno sguardo unico sull’integrazione dell’IA nel tessuto della società e sulle sfide della tecnologia.
Dove seguirlo? Sul suo account X/Twitter, sul suo sito web e sul canale YouTube.

 

Fei-Fei Li: sostenitrice dell’AI Etica

Perché seguirla? Membro dell’Institute for Human-Centered AI di Stanford, Li mette forte enfasi sull’uso etico dell’IA, un’area sempre più critica nello sviluppo della tecnologia.
Dove seguirla? Su YouTube si possono trovare le sue interessanti interviste con considerazioni e approfondimenti sull’IA etica.

PODCAST E PODCASTER CHE MERITANO L’ASCOLTO

AI Chats di Jaeden Schafer

Perché ascoltarlo? Perchè questo podcast esplora il mondo di ChatGPT, le ultime notizie sull’IA e il suo impatto sulla nostra vita quotidiana con discussioni approfondite e interviste con i principali esperti del settore. Jaeden Schafer, riconosciuto a livello globale come uno dei migliori podcaster sull’IA, guida la conversazione di ogni episodio combinando rigore accademico e esperienza pratica.

Practical AI: The capacity for good

Perché ascoltarlo?Perché è un podcast che esplora il lato positivo dell’intelligenza artificiale. La serie parla dell’intersezione tra automazione AI, supporto clienti e customer experience e approfondisce storie vere di come l’IA abbia migliorato la vita delle persone.

The AI Breakdown di Nathaniel Whittermore

Perché ascoltarlo? Questo podcast è un’analisi giornaliera delle notizie su tutto ciò che riguarda l’intelligenza artificiale: dall’esplosione di creatività portata da strumenti come Midjourney, ChatGPT e AutoGPT alle potenziali trasformazioni nel lavoro e nelle industrie. Whittermore è un consulente indipendente di strategia e comunicazione, nonché un podcaster esperto.

Last Week in AI

Perché ascoltarlo? Perché è un appuntamento settimanale che riassume e discute gli sviluppi più interessanti nel campo dell’IA, nel deep learning, nella robotica e molto altro ancora!

Hard Fork – The New York Times

Perché ascoltarlo? Ogni settimana, i giornalisti Kevin Roose e Casey Newton esplorano e spiegano gli ultimi cambiamenti nel mondo – sempre in rapida evoluzione- della tecnologia.

ESPLORIAMO PER CRESCERE

Il mondo dell’IA pullula di innovazioni e di discussioni, e trovare dei punti di riferimento può essere molto utile. In questo campo in continua evoluzione, le voci più interessanti possono infatti aiutarci ad arricchire le nostre conoscenze, ma anche ispirarci e guidare le scelte utili per la nostra crescita. Che tu sia dirigente, imprenditore o studente non importa, in questo momento siamo tutti chiamati a misurarci con qualcosa di nuovo, che non conosciamo. Quindi, non ci resta che restare curiosi, informati e, soprattutto, non smettere mai di cercare!

Innovation / Insights
Feb 14 - 2024
Tempo di lettura: 3'

Blossom AI HUB. Che cosa intendiamo per evoluzione

Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione digitale e stiamo per assistere a un cambiamento epocale: qualcosa che andrà oltre la tecnologia e che è pronto a diventare parte del nostro tessuto sociale e culturale.
Più o meno consapevolmente, ci stiamo sempre più allontanando dai metodi tradizionali e, mentre abbracciamo l’intelligenza artificiale, stiamo già vedendo i primi grandi cambiamenti nelle interazioni umane, nell’industria e nei sistemi di potere.

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IL LUOGO DEL CAMBIAMENTO

Il fatto è che, con la vita che procede a un ritmo sempre più veloce e con un panorama tecnologico in costante evoluzione, è facile sentirsi sopraffatti. Il bombardamento di novità digitali e il continuo afflusso di informazioni possono essere difficili da gestire, anche per i più esperti. Il nuovo Blossom AI Hub nasce per questo. Il nostro AI Hub non vuole essere un centro per l’avanzamento tecnologico, ma innanzitutto un luogo di promozione di una mentalità aperta al cambiamento, utile a comprendere il momento. Il nostro scopo è poter affiancare e preparare aziende e persone ad affrontare il futuro a testa alta. Perché questa è la nostra idea di evoluzione, un’attitudine condivisa che tende ad abbracciare il futuro.

UNA COMUNITÀ VIBRANTE

La condivisione è un elemento fondamentale di questa attitudine al cambiamento. Ecco perché abbiamo scelto di dare vita a un Hub, perché il nostro scopo è quello di creare una comunità ampia, capace di comprendere dipendenti e imprenditori, esperti e appassionati, sempre spinti dalla voglia di cercare nuove soluzioni, imparare e scambiarsi idee, per ridefinire i confini dell’innovazione.

UN INVESTIMENTO NEL DOMANI

Al centro di tutto restano ovviamente le persone. Senza persone non c’è innovazione e tantomeno evoluzione. Per questo un elemento fondamentale è l’apprendimento continuo: nell’ultimo anno in Blossom abbiamo investito significativamente nella formazione interna, completando oltre 960 ore di formazione sull’IA in meno di quattro mesi, che hanno coinvolto tutti i nostri collaboratori.
Una missione che va oltre l’Intelligenza Artificiale, perché di fatto la formazione continua stimola le persone e aiuta a creare un ambiente sempre pronto ad cogliere le trasformazioni in atto nel tentativo di comprenderle al meglio.

VERSO IL FUTURO

Integrando l’IA nel nostro lavoro e investendo nella formazione, abbiamo acquisito consapevolezza strategica dei suoi migliori utilizzi, limitazioni e possibilità. Con il lancio del nostro AI Hub, ora siamo pronti a offrire un’ampia gamma di servizi per accompagnare i clienti nel loro percorso di conoscenza profonda e consapevole dell’IA nel loro lavoro.
Questo perché per noi il cambiamento non è un concetto astratto, ma il frutto concreto di una serie di scelte e azioni che possono essere apprese e applicate ovunque.
L’AI Hub è stato creato con l’obiettivo di condividere la nostra visione e le nostre ultime scoperte. Perché per noi, l’evoluzione è innanzitutto un mindset condiviso, un approccio positivo al cambiamento.

Culture
Ott 11 - 2023
Tempo di lettura: 5'

La forza statica della fotografia. Intervista a Giulio Di Sturco

Il vincitore di tre World Press Photo sul suo attuale lavoro: “Non mi importa della fotografia. Mi importa quello che una persona trova oltre le mie foto”.
Leggi l’intervista.

TEMPO DI LETTURA 10′
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Aerotropolis© Giulio Di Sturco

Giulio Di Sturco è uno dei fotografi di reportage più importanti d’Italia. Con i suoi scatti ha raccontato storie da tutto il mondo. Il suo “sguardo” ha spesso la straordinaria capacità di obbligare lo spettatore a fermarsi e domandarsi “Cosa sto guardando?”.

Lo raggiungiamo in video-call. Lui è collegato dal suo studio di Arles, capitale europea della fotografia. L’incontro è digitale, ma di Giulio ci arriva subito la verità, la concretezza. Sarà che è agosto, fa caldo e siamo tutti più rilassati, sarà quel suo accento ciociaro, ma nel giro di pochi secondi ci sentiamo a casa. E non una casa qualunque, ma la casa di un maestro della fotografia internazionale. Così ne approfittiamo, e iniziamo con una domanda che possa portarci dritti dentro la sua vita.

Aerotropolis© Giulio Di Sturco

D. Che cosa abbiamo interrotto con questa chiamata, Giulio?

R. Ti do due risposte, una meno formale e una più formale. La prima è che mia moglie e mia figlia di 4 anni sono andate in vacanza e quindi mi stavo godendo il silenzio e la solitudine (ndr: ride). No, in realtà sto editando un libro su un lavoro che ho finito… Cioè, non so ancora se è davvero finito, ma deve essere messo in ordine. È un progetto sulle città aeroporto (ndr: il progetto è Aerotropolis) che ho iniziato nel 2014. Ora ho stampato tutte le foto e le sto selezionando. Poi arriverà una curatrice di arte contemporanea che mi aiuterà a mettere insieme i pezzi. Sai, sui progetti di lunga durata, uno sguardo esterno è fondamentale. A me sembra sempre che manchi qualcosa, ma non è detto che sia così…

D. Che bella notizia! Ma prima di parlare di futuro, vorrei tornare alle origini. Quando hai capito che saresti diventato un fotografo?

R. Io vengo da quattro generazioni di fotografi. Sono di Roccasecca vicino a Cassino, un paese del basso Lazio, e durante la celebre battaglia di Montecassino il mio bisnonno faceva le foto ai soldati che scappavano dalla guerra. Poi mio nonno e i miei genitori hanno proseguito: loro avevano uno studio di paese che faceva ritratti. Ma all’inizio, come è normale, io escludevo questa ipotesi. Poi sono andato a studiare allo IED a Roma, e lì ho incontrato Angelo Turetta. Lui, che è uno dei fotografi di reportage più importanti d’Italia e un celebre fotografo di scena, ha un’energia, un modo di portarti dentro le storie, dentro il reportage, che mi piaceva parecchio. Lui è stato la luce che ha illuminato tutto.

D. Te lo ricordi il tuo primo lavoro di reportage?

R. Come no! Finita la scuola mi sono trasferito in Canada. A quel tempo andavano di moda i “city portrait”. Io andavo in giro e scattavo, e nel frattempo lavoravo con un fotografo di matrimoni italiani a Toronto. Mi vedevo questi matrimoni assurdi e giravo la città. Però più che “city portrait” io, di fatto, documentavo la mia esperienza… Quando poi sono tornato a casa, ho messo insieme il lavoro e l’ho inaspettatamente venduto ad “Amica”, un magazine che ai tempi faceva molti reportage. E quindi, da là, ho detto: “Figo!”. E ho cominciato a fare avanti e indietro dal Canada e dagli USA: andavo, scattavo, tornavo e vendevo i reportage. E così poi sono entrato nell’agenzia Grazia Neri.

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Ph. Giulio Di Sturco

Per me un progetto fotografico è come un film: devo avere una trama, raccontare una storia.

D. Tu hai sempre raccontato storie con le tue foto. Perché?

R. Sì. È così. Io non ho mai fatto cronaca pura, news. E non sono nemmeno mai riuscito a pensare a una foto singola. A me non interessa la bellezza della foto in sé. Ho sempre voluto mettere insieme delle foto per raccontare qualcosa.

D. Negli anni le tue storie erano via via sempre più “impegnate”. Come fotoreporter hai lavorato per tantissime Ong, per diverse agenzie delle Nazioni Unite e molte associazioni umanitarie. Come è successo?

R. È successo perché a un certo punto della mia vita mi sono trasferito in India. Per me è qui che inizia la mia vera carriera. In quel momento l’India era in completo boom economico. Tutti volevano storie sull’India e io ero un po’ diventato “il fotografo del sud-est Asiatico”. Prima ho cominciato a lavorare con il New York Times e il National Geographic e poi, da lì, sono iniziate le collaborazioni con Medici senza frontiere, Amnesty International, Save the Children e con alcune agenzie delle Nazioni Unite. Ed è stato con alcuni di questi lavori che ho conosciuto Blossom, peraltro… Ai tempi facevo foto in bianco e nero, con taglio molto drammatico.

D. Oggi i tuoi lavori continuano ad avere come oggetto tematiche sociali, ma hai completamente cambiato il tuo modo di fotografare. Perché?

R. A un certo punto, mentre ero in India, mi sembrava di rifare sempre le stesse storie. Avrebbe anche potuto andarmi bene: ormai sapevo quali foto funzionavano e come sostenere il lavoro di tante ONG. Ma temevo di andare un po’ con il pilota automatico, quindi, in quel momento, ho deciso di cercare altre soluzioni per parlare degli stessi temi.

A un certo punto della mia carriera ho deciso di cercare un linguaggio diverso, più metaforico.

D. È così che è nato il tuo progetto Gang Ma?

R. Sì, esatto. In quel momento ero interessato al cambiamento climatico e il Gange mi è servito per ribaltare il mio modo di fare reportage. Mentre prima io stavo in mezzo al Kashmir durante la guerra e tutto (troppo!) succedeva davanti a me, in questo caso mi ero messo sul Gange, dove non succedeva nulla. Lì non mi bastava piazzare la camera e fotografare al meglio tutto quello che di fatto già succedeva, lì dovevo scoprire il modo giusto per raccontare la mia storia, la mia idea.

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Gang Ma© Giulio Di Sturco

D. Ma perché sentivi così forte l’esigenza di trovare una nuova estetica?

R. Perché sentivo che c’era bisogno di nuove immagini per smuovere i pensieri delle persone. Quando si parlava di inquinamento delle acque, per esempio, in quel momento tutte le foto mostravano la bottiglietta di plastica in acqua. E quindi, secondo me, quella cosa lì non funzionava più. Bisognava trovare un modo più delicato, meno esplicito. O meglio, questo era quello che volevo fare. Quindi è nato Gang Ma, dove l’inquinamento è ciò che rende esteticamente belle le foto. Chiunque si può avvicinare a queste foto, attratto dai colori e dalle inquadrature, ma solo in un secondo momento si accorge che proprio la bellezza di colori è dovuta all’inquinamento. È sicuramente una fotografia meno immediata, ma per me più potente. Perché non è finita e lascia spazio di interpretazione prima, e di riflessione poi.

La fotografia non finita non è usa e getta. Richiede più tempo ma per me è più potente.

D. Da come la descrivi, direi una fotografia meno di reportage e più vicina all’arte contemporanea. Sei d’accordo?

R. Non saprei… Forse ora la mia fotografia occupa uno spazio intermedio fra il reportage e la fotografia fine art… Ma queste sono solo definizioni. Io, comunque, vengo dalla fotografia documentaria, dalle “cose vere”. Io devo farti sempre vedere una cosa reale. Però oggi voglio prendere una cosa reale e portarti in un’altra dimensione. Ma questo non vuole dire che non sia comunque una fotografia sociale o politica.

D. È questo che stai perseguendo anche nei tuoi attuali progetti?

R. Sì, per me è ancora così. Il fatto è che non voglio dire più se una cosa è giusta o sbagliata: siamo troppo esposti alle persone che danno dei giudizi senza realmente conoscere, e oggi è impossibile conoscere tutto. Per questo preferisco una fotografia non finita, perché rappresenta una “realtà” magari non conosciuta, magari ancora embrionale, e la porta all’attenzione delle persone.

Ti racconto un episodio: quando faccio delle mostre sulle città-aeroporto (l’ultima, recente a Padova), c’è gente che reagisce in una maniera super forte, gente che dice “Questo è l’inferno in terra!”; e altre che ne sono attratte, affascinate. Perché sono città finte, costruite, ma l’architettura è futuristica, ha una sua bellezza, dà l’idea di una città che funziona. Reazioni opposte alla stessa foto.

D. Come nascono i tuoi attuali progetti? Che cosa accende oggi la tua curiosità?

R. Mah, guardando i miei progetti con un po’ di prospettiva mi accorgo che sto lavorando sul futuro e sulle soluzioni che potrebbero essere normalità fra venti, trenta o cento anni. Le città-aeroporto sono i luoghi dove potremmo vivere un domani: città in cui l’aeroporto è al centro e tutto ruota attorno ad esso; una modifica strutturale che è un cambiamento antropologico. La pediatria di Bristol, in cui sto per girare un documentario video, invece salva bambini prematuri di 22 settimane che vent’anni fa non avevano una chance di sopravvivenza. Poi c’è il progetto sullo spazio e, in stand- by, uno sul trans-humanism, con una serie di fotografie di umanoidi che ho scattato in Cina… Tutto ciò che si spinge al limite del futuro prevedibile, insomma. Ti direi che faccio science fiction, però con foto di cose reali.

Ph. Giulio Di Sturco
Ph. Giulio Di Sturco
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Ph. Giulio Di Sturco

D. Hai uno scatto a cui sei più affezionato?

R. Uno? No, no… Perché la fotografia mi annoia…

D. Posso scriverlo? Guarda Giulio che lo uso come titolo se mi dici così…

R. (ndr: ride) E fu così che smisi di lavorare… No, ma è vero! La fotografia in sé è uno strumento. Mi interessa molto di più il concetto, l’idea, il progetto. E sai che c’è? Ad esempio, con il progetto sullo spazio, ogni volta penso di aver fatto la foto migliore della mia vita. Poi torno, ne scatto altre e quelle mi piacciono ancora di più. Insomma, quando farò la foto perfetta sarà quando andrò in pensione.

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Ph. Giulio Di Sturco

D. E invece che cosa ti piace guardare? Dove trovi le tue ispirazioni?

R. Te ne dico un’altra forte? (ndr: ride) La fotografia non mi interessa. Non la guardo più.

D. Di bene in meglio, direi… Ma in che senso?

R. No, seriamente, guardo pochissima fotografia perché so che mi rimane in testa e poi, anche inconsciamente, finirei per riprodurre delle cose già fatte. E quindi preferisco guardare altrove. Leggo tantissima science-fiction, guardo tante serie tv, molta arte: i surrealisti, i futuristi e De Chirico sono una grande fonte di ispirazione.

D. Per te la fotografia ha un potere?

R. Eh… questa è una delle grandi questioni sulla fotografia. Se me lo avessi chiesto dieci anni fa, ti avrei risposto che la fotografia cambia il mondo, che noi reporter diamo la parola a chi non ce l’ha, ecc… La verità è che non ci credo più. Adesso io non voglio cambiare niente.

D. E allora perché lo fai, se posso permettermi?

R. Perché la fotografia mi dà l’opportunità di entrare in dei posti che sarebbero inaccessibili. Perché mi permette di tirare fuori un’idea e aprire un dialogo con le persone che la guardano. Perché, comunque, la fotografia ha un grande valore, quella che io chiamo “forza statica”, perché la fotografia richiede tempo a chi la guarda e obbliga a riflettere, a farsi domande. Per me, oggi, questo è più forte che dire “guarda, qui c’è la guerra: questi sono i buoni e questi i cattivi”. Io credo che una foto possa dire (o non dire) molto di più di questo.

D. Il tuo sogno futuro?

R. Di continuare a fare quello che faccio, con la libertà con cui lo sto facendo. Perché, devo dì (ndr: dice con forte accento), io sono contento di tutto quello che ho fatto: dei premi, delle persone con cui ho lavorato, dei lavori, dei libri… Io posso solo essere felice perché nella vita sono stato veramente fortunato…

Per fare il fotografo serve avere tanta curiosità, intelligenza e un sacco di fortuna.

D: E tu quando sei stato fortunato?

R: Il primo World Press Photo è stata completamente una botta di culo!

D. Davvero non te l’aspettavi?

R: Assolutamente no. Avevo 25 anni. Ho inviato la candidatura solo perché un’amica ha insistito. Io non lo volevo mandare… E invece ho vinto. E a quei tempi, una vittoria del genere era l’equivalente di un Oscar cinematografico; quindi, ha sicuramente cambiato il corso della mia vita… Sarei un ingrato se dicessi il contrario.

Che si sia trattato di fortuna o no, quel che è certo è che Giulio Di Sturco da quel giorno di premi ne ha vinti molti altri. E nel corso degli anni non ha mai smesso di cercare storie nuove e modi sempre diversi per raccontarci cosa succede nel mondo. Fra chiari e scuri, problemi e innovazioni, il suo è un punto di vista prezioso che risveglia curiosità e conoscenze. Perché comunicare, a volte, significa porre le domande giuste, più che dare risposte.

Talks
Ott 11 - 2023
Tempo di lettura: 1'

The good news. La comunicazione può fare la differenza

Jon Lidén sembra aver vissuto cento vite. Antropologo, reporter di guerra, giornalista, speech writer per il WHO e direttore comunicazione di una grande NGO, Lidén ha più volte sperimentato gli effetti che la comunicazione può avere sul mondo. Oggi è Senior Strategy Advisor di Blossom, e ci ha raccontato la sua straordinaria storia.

TEMPO DI LETTURA 2′

Nel mondo della comunicazione per il sociale, quando una campagna strategica funziona può sprigionare una potenza straordinaria. Convincere i policy makers, mobilitare la società civile, e riuscire a portare finanziamenti cruciali per cause sociali può letteralmente cambiare il corso della storia. Vi sembra esagerato? Vi basterà ascoltare le parole di Jon Lidén per capire che non lo è.

Jon Lidén, nato in Norvegia ma vissuto in tutto il mondo, oggi è Global Health Senior Strategy Advisor di Blossom e, più in generale, uno dei massimi esperti internazionali di campagne di mobilitazione e fundraising per le cause umanitarie, specialmente nell’ambito della salute.

Nel corso della sua intervista, Jon ci ha portato dal divano di casa sua a Ginevra alle Filippine, passando per l’Africa, la Cambogia, le guerre, i conflitti, la politica, le pandemie, i tavoli del WHO e i grandi eventi di charity. Ci ha raccontato di tutte quelle volte che la giusta combinazione di messaggi ricchi di senso e azioni hanno saputo innescare reazioni a catena positive e risultati tangibili per il bene comune. Ovvero, ci ha raccontato di tutte quelle volte che la comunicazione è stata un mezzo per generare un vero impatto e rendere, almeno in parte, il mondo un luogo migliore.

Insights
Ott 11 - 2023
Tempo di lettura: 5'

I social media possono fare del bene? Insight e opportunità

Jeremy Bogen, Senior Social Media Strategist di Blossom, sul legame tra social media e cambiamento sociale. Visioni e consigli.

TEMPO DI LETTURA 9′

I social media rappresentano ancora uno strumento rilevante per il cambiamento? In una parola: sì. Anche se i tempi stanno cambiando.
Fino ad oggi è stato un percorso lungo e movimentato, ma non si può negare l’effetto profondo che i social media hanno avuto sui movimenti sociali e sul mondo.

La verità, però, è che raggiungere e coinvolgere il pubblico sui social media per il mondo umanitario è diventato oggi molto più difficile di un tempo e, per alcuni, anche proibitivamente costoso. Oggi, restare nel feed del nostro pubblico richiede un grande impegno e un team social media ben oliato con competenze nella produzione di strategie realistiche, creatività accattivanti, storytelling coinvolgenti, contenuti persuasivi e promozioni mirate.

Social Media is dead. Long live Social media!

Anche se alcuni lo sostengono, non siamo in una “post-social media era”. L’idea di una “post-social media era” è un’idea illusoria e lontana dalla realtà del mondo in cui viviamo. I social media fanno parte di ogni aspetto delle nostre vite. Sono il luogo in cui leggiamo le notizie, comunichiamo con gli amici e i familiari, in cui ci isoliamo sentendoci comunque connessi con il mondo.

L’idea di una “post-social media era” è solo uno degli argomenti amati dagli “esperti” che vogliono a tutti i costi prevedere cosa verrà dopo, quale sarà la nuova tendenza.

Ma pretendere di conoscere la “next big thing” è praticamente impossibile anche per chi siede alle riunioni esecutive di X, Meta, TikTok, Google o Linkedin.

Certo, c’è sempre qualcosa di nuovo in cantiere, come Threads, lanciato di recente e che forse avrà successo o forse sarà il prossimo Google+.

Ma insomma, la parte più eccitante riguardo alla “next big thing” è che nessuno la vedrà arrivare, proprio come è sempre accaduto.

Nuove sfide

La comunicazione attraverso i social media per le ONG e il no profit era un lavoro molto più semplice agli albori; chiamiamola l'”era pre-monetizzazione”. La crescita organica e l’interazione erano guadagnate sul “campo”, non pagate. Le nostre strategie erano incentrate semplicemente sull’essere “social”, con narrazioni ben fatte.
Oggi per queste organizzazioni la sfida è più difficile e richiede un team multidisciplinare di esperti in grado di coprire strategia, creatività, produzione, gestione dei canali e gestione dei progetti. Siamo stati costretti a metterci al servizio degli algoritmi, che alla fine determinano il contenuto del feed di ogni utente.

Grandi opportunità

La buona notizia, però, è che i social media rimangono un potente mezzo in cui le persone si connettono, condividono informazioni e raccontano storie che possono mobilitare l’attivismo, ispirando piccole azioni individuali che possono fare la differenza.

Il punto di riferimento in questo ambito è il columnist del New York Times, Nicholas Kristof. Per chi cerca ispirazione su come scrivere post sui social media, Kristof è uno dei migliori: la sua autenticità porta i lettori dritti dentro le storie.

Una volta, ad esempio, ha scritto la storia di una donna la cui vita fu distrutta dopo che le sue foto erano apparse su PornHub senza il suo consenso. Una situazione che si aggravò fino a portare la donna a perdere tutto. Kristof non scrisse la sua storia per chiedere donazioni, ma il suo post spinse così tante persone a dare il loro contributo che la donna riuscì in fretta a ricominciare da capo la sua vita. Ma non solo. L’indignazione causata dall’articolo generò reazioni così forti verso PornHub, che si trovò costretto a modificare le sue policy.

Che cosa ci insegna questo episodio? Che nessuna storia è troppo piccola, perché non si sa mai chi può ascoltarla. E anche se sono solo poche persone, queste possono comunque fare la differenza. Si può essere storyteller di persone e cause, anche solo con un post di testo. Si può farlo con compassione e rispetto per il soggetto. E quando il pubblico commenta, si può sempre trovare il modo di dire come aiutare.

L’impatto positivo sui social media non deve essere definito da milioni di visualizzazioni o migliaia di interazioni. Certo, gli algoritmi su Facebook e Instagram rendono più difficile raggiungere ampie porzioni di pubblico, ma questo non significa che non valga la pena di continuare a scrivere e comunicare.

QUINDI, METTIAMOCI AL LAVORO

La domanda che spesso emerge quando parliamo di idee e strategie con i clienti è “Quali sono le tendenze attuali sui social media, cosa dovremmo fare?”. La risposta è che qualunque siano le tendenze e i nuovi strumenti, l’attenzione deve essere sul contenuto e sulla narrazione, per sensibilizzare e coinvolgere.

I NOVE PASSI DI UNA CAMPAGNA SOCIAL MEDIA EFFICACE

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    1. 1) Definisci obiettivi realistici e significativi. Questo è il momento di determinare se i social media sono la piattaforma giusta.

 

    1. 2) Crea la tua mappa di pubblico, ovvero:
      • – Definisci i tuoi principali pubblici target
      • – Determina l’obiettivo della campagna per ciascun gruppo di pubblico
      • – Determina il miglior canale per raggiungerli
      • – Decidi che tipo di contenuto devi creare per raggiungere e coinvolgere ciascun gruppo di pubblico
      • – Definisci i KPI per ciascun pubblico target

 

    1. 3) Sulla base di ciò che emerge dai passaggi uno e due, definisci la creatività della campagna che risuonerà meglio con la tua mappa di pubblico, sviluppa i messaggi chiave di massima e ovviamente un hashtag.

 

    1. 4) Definisci la tua strategia di contenuto basata su una narrazione che spingerà il tuo pubblico a rimanere coinvolto durante tutta la campagna.

 

    1. 5) Crea un calendario editoriale realistico e definisci gli asset di cui avrai bisogno per eseguirlo.

 

    1. 6) Determina se sarà necessaria una strategia di promozione a pagamento. Se è necessario, definisci il budget, i canali e i contenuti che saranno prioritari per questa operazione.

 

    1. 7) Crea un elenco di sostenitori, partner e influencer che possono amplificare la tua campagna.

 

    1. 8) Quando la produzione degli asset è completa, crea un kit per la tua lista di amplificatori.

 

  1. 9) Lancia, misura, aggiusta e… Goditi il viaggio!

BENE VS MALE

Oggi viene giustamente prestata molta attenzione agli impatti dannosi dei social media: hate speech, politica divisiva, bullismo, frodi, fake news,… L’elenco delle storture è davvero troppo lungo. Ma se un’ONG è credibile, i suoi messaggi sono concisi, basati su fatti, dati solidi e informazioni da fonti affidabili, allora può affrontare tutti questi rischi.
Facciamo un esempio.

Diciamo che un’ONG focalizzata sul clima sta conducendo una campagna di sensibilizzazione sulla necessità di fermare l’uso del carbone. Il comportamento tipico degli algoritmi è il seguente: le persone che sono d’accordo con i messaggi dell’ONG vedranno il loro contenuto e, se è convincente, interagiranno e gli algoritmi premieranno l’account/i post con maggiore visibilità.

Tuttavia, se un gruppo pro-carbone vede la campagna e il suo successo, è possibile che questo gruppo decida di creare una contro-campagna piena di messaggi falsi su quanto sia innocuo il carbone. Se poi, questo gruppo pro-carbone dovesse decidere di investire sui suoi contenuti… Voilà, la battaglia social tra il bene e il male ha inizio!

Che cosa può fare allora la ONG? L’ONG voleva solo aumentare la consapevolezza sul cambiamento climatico e ora si trova a combattere una battaglia sulla verità.
Piuttosto che attaccare l’altra parte o rispondere in modo negativo o emotivo ai commenti, la migliore strategia è rispondere in modo educato e professionale. L’ONG dovrà creare una risposta standard basata sui fatti che includa link pertinenti alla fonte delle prove supportate dai dati: usare un tono privo di emozioni è cruciale, non si attacca mai il mittente, si affronta semplicemente il messaggio falso. E, non ultimo, in tutti questi casi, bisogna segnalare sempre qualsiasi post che violi le politiche della piattaforma riguardanti le fake news e le informazioni false.

Un gioco a lungo termine

I social media devono essere considerati come un gioco a lungo termine, in cui dobbiamo rimanere attivi, presenti e reattivi. E soprattutto, essere disciplinati: una strategia di contenuto efficace deve offrire in modo coerente contenuti avvincenti e rilevanti. Se un post è progettato solo per informare alcuni interessati, allora l’email è probabilmente il canale migliore. L’impegno a lungo termine in questa prospettiva darà molti frutti, specialmente per il posizionamento dell’identità della ONG in questione.

TENDENZE EMERGENTI

Gli ultimi dati fanno emergere una certa insoddisfazione degli utenti nei confronti degli algoritmi che curano i loro feed. Molte persone, ad esempio, hanno deciso di tornare “ai vecchi tempi”, passando più tempo nei gruppi e nelle comunità più piccole. Persino Mark Zuckerberg ha parlato di come le persone stiano cambiando le loro abitudini: secondo Facebook, più di 1,4 miliardi di persone partecipano attivamente ai Gruppi ogni mese.

E i canali Telegram e Discord sono diventati enormemente popolari e stanno guadagnando terreno tra le persone che seguono le notizie in tempo reale, proprio come fanno su Twitter (X).

Per le organizzazioni umanitarie, questa è una buona notizia perché possono connettersi direttamente con il loro pubblico creando gruppi che potranno crescere in modo organico anche grazie ai follower più coinvolti.

Naturalmente, i Gruppi Facebook per il cambiamento sociale non sono un nuovo fenomeno. Basti pensare a uno dei migliori casi studio per l’impatto sociale, ovvero il movimento Fridays for Future di Greta Thunberg. In questo caso, la strategia di campagna decentralizzata è stata geniale ed efficace: Greta era la voce principale, ma il potere virale è avvenuto grazie all’azione di singoli individui nelle comunità di tutto il mondo che hanno organizzato centinaia di gruppi locali di Fridays for Future su Facebook.

Grazie della lettura e… ci vediamo online, magari nel prossimo Gruppo Facebook!

Jeremy Bogen

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