Interview / Art and Design
Ott 10 - 2022
Non chiamatemi designer. Intervista a Paolo Proserpio

Dalla passione per lo skate al lavoro per i brand di alta moda, passando per le fanzine, la fotografia, i viaggi improvvisati, le copertine dei dischi e un incontro a sorpresa con Lou Reed. Intervista al grafico per cui tutto è possibile con la giusta colonna sonora.

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Arrivando a casa di Paolo Proserpio, grafico, fotografo, creativo e grande appassionato di musica, ci accoglie Leo, il suo cane, che ci introduce nel suo nuovo studio.
Abbiamo scelto di incontrare Paolo e fargli qualche domanda per tanti motivi, il primo – e forse più futile – è che le sue serigrafie sono gli unici quadri appesi in Blossom. E sappiamo di non essere gli unici ad averle apprezzate…

D. Immagino che siano in tanti negli ultimi tempi a dirti: “Ho visto una tua serigrafia in casa dei Ferragnez. Ma ti sei venduto?”. Tu, che fai questi lavori da tanti anni, cosa rispondi?
R. Rispondo che io non so come ci sia arrivata una mia serigrafia a casa loro (potrebbero averla presa da Le Grand Jeu a Parigi, ma non ne sono sicuro!), ma aggiungo anche che, se delle persone che potrebbero avere in casa un Keith Haring o un Berry McGee o qualsiasi altra cosa scelgono una mia serigrafia, io sono contento. E basta.

D. Dopotutto tu hai sempre unito mainstream e cultura underground, giusto?
R. Sì, per me non è mai stato un problema o un limite. A chi è super purista non ho nulla da dire. Io però non la vivo come una contraddizione. Per tanti anni ho lavorato da Versace e, contemporaneamente, facevo le copertine di dischi indipendenti e scattavo foto ai gruppi per delle riviste della scena musicale underground e non.

D. Ecco, a questo proposito, come sei passato dalle copertine dei dischi punk degli amici del liceo agli inviti delle sfilate di alta moda?
R. È tutto collegato, è una lunga storia che inizia negli anni Ottanta.

D. Ce la racconti?
R. Sì. Tutto comincia nel 1989 con Ritorno al futuro. Parte seconda. Nel film il protagonista Marty va in skate, io lo vedo e voglio andare in skate anche io. Ma a Desio (ndr: una cittadina di provincia in Brianza, paese di origine di Paolo) non c’è molta gente che lo fa. Poi un giorno, mentre sono in giro con lo skate, vedo per strada uno con la tavola e lo inseguo. E lì inizia tutto.

D. Che cosa inizia esattamente?
R. Scopro che esiste un giro di ragazzi che non ascoltano per forza Jovanotti o i Guns’n’Roses o Vasco Rossi. Scopro un sacco di cose bizzarre e persone freak, conosco i fratelli Formenti di Seregno, che facevano un magazine di skate (di cui oggi custodisco ancora delle copie). Scopro gli adesivi, le grafiche delle tavole, il punk e il rap… Mi si apre un mondo.

D. Una comunità in cui finalmente ti riconosci?
R. Mah, sì… però non mi fraintendere, non sono “Jenny from the Block”, non è che arrivo dal ghetto (ndr: ride). La mia è una famiglia normalissima e io non ho mai voluto ribaltare il sistema… È solo che per me lo skate, da subito, ha significato un’enorme libertà.

D. E come passi poi alla moda?
R. Eh, allora… qui ci sono tre passaggi fondamentali: la scoperta ufficiale del lavoro del grafico, le foto ai concerti e il Coachella.

D. Sembra interessante. Partiamo dal primo punto: perché fai il grafico.
R. Stavo facendo l’Accademia di architettura a Mendrisio, in Svizzera, senza nessun entusiasmo, e la mia “santa mamma” – che è viva, eh? No, perché quando dico così mi fanno tutti le condoglianze…– un giorno mi dice: “Ad architettura ti hanno segato a mille esami… Non è che quelle cose lì dei dischi, che fai fino alle 5 del mattino, sono il lavoro che vuoi fare?”.
In effetti era vero. Avevo iniziato a fare disegni e collage per dischi e flyer, e in quelle cose mettevo una passione incredibile. Ma non sapevo che si chiamasse “grafica”.

D. In che senso?
R. Nel senso che poi sono andato allo IED per iscrivermi, ho preparato un po’ dei miei lavori e mi sono presentato come illustratore. Ma loro mi hanno detto che quello non era illustrare. Insomma, mi hanno instradato e mi hanno un po’ salvato.

D. E le foto ai concerti quando arrivano?
R. Le foto arrivano presto, quasi subito. Ma diventano un lavoretto quando mio papà mi regala la Mavica della Sony, una delle prime macchine digitali, quella che funzionava con i floppy. Ce l’ho ancora! Con quella scattavo foto a ogni concerto e la mattina dopo le mandavo alle testate. È così che ho iniziato a collaborare con Rumore, Rockstar, Rocksound, un’agenzia fotografica americana (Retna) e anche MTV…

D. Tu lo chiami lavoretto ma in realtà hai un archivio di foto con alcuni dei più grandi protagonisti della musica degli anni Novanta e Duemila. Hai uno scatto preferito?
R. No, uno preferito forse no. Però ho tanti episodi assurdi che stanno dietro quegli scatti. Ad esempio, nel 2004 ero al Festival di Benicassim e mi scappava la pipì da morire. A un certo punto vedo una porta con scritto “non entrare” e penso che di sicuro lì dentro c’è un bagno. Così la apro e, quando entro, trovo Lou Reed da solo, in mezzo a una stanza con tantissime sedie e basta. Sembrava una performance! Io vado, scatto una foto e subito quello della sicurezza mi manda fuori. Insomma, cercando il bagno ho scattato una foto di Lou Reed in primo piano…

D. Oltre alle foto, fra le tue tappe fondamentali, hai citato il Coachella. Perché?
R. Eh sì, perché mentre ero all’ultimo anno di IED, nel 2002, la mia carissima amica Cristiana Paolucci (a.k.a. Nanà) – che lavorava per MTV e che oggi, purtroppo, non c’è più – vuole andare al Coachella per gli Strokes. Io subito dico: “No, ho la tesi adesso, non posso venire”.
Lei, invece, che cosa fa? Mi prenota un volo e me lo dice tre giorni prima… Ovviamente sono partito con lei. Dopo una serie di peripezie, fra cui il fatto che non avevamo gli accrediti, siamo riusciti ad entrare e lì ho passato tre giorni pazzeschi.
Oltre ai concerti, ho visto Vincent Gallo, abbracciato Tim Burgess dei Charlatans, sono stato al bar di fianco ai Chemical Brothers…

D. E cosa c’entra tutto questo con il tuo diventare grafico per la moda?
R. C’entra perché, mentre ero via, scopro di essermi perso i colloqui che Versace aveva fatto agli studenti dello IED. Quando me lo riferiscono penso: “Nessun problema. Li chiamo”. In quel momento ero carichissimo. Cioè, io ero stato al Coachella, avevo visto Bjork che suonava insieme ai Matmos con il pancione (aspettava sua figlia Ísadóra, figlia anche di Matthew Barney!), capisci… Ero così sicuro che mi hanno preso.

D. Che cosa hai scoperto quando hai iniziato a lavorare come grafico per i brand?
R. Durante la mia prima esperienza nel magico mondo della moda, nel 2001, a Londra, da Gucci (con Tom Ford), ho scoperto che non potevo prendere i pennarelli e graffiare il logo solo perché piaceva a me. Che se mi piaceva il grigio non potevo fare tutto grigio. Ho imparato che dovevo capire i valori e temi del brand. Nel 2002 ho cominciato a lavorare per Versace e, nonostante tutti questi anni dedicati alla mitica Medusa, come potete vedere, non sono assolutamente un uomo Versace: non ho i vestiti zebrati, il barocco… Ma non importa, ho imparato ad amare il brand per quello che vuole esprimere, a guardare, a vedere un sacco di cose diverse e ad affrontare lavori complessi, con produzioni gigantesche e su scala globale. Ho imparato ad accettare le sfide.

D. E come convive questo mondo con la tua produzione personale?
R. Convive benissimo. Perché un giorno fai il catalogo tutto in stile barocco per la moda e, dopo tre ore, fai, non so… un disco di un gruppo che fa musica jazz sperimentale. E non ti annoi mai. Ed è mescolando tutta questa roba che poi scopri che certe cose ritornano. Perché alla fine tu sei sempre tu e, quando poi vedi certi lavori vicini, capisci che hanno la stessa mano: la tua.

La gente si immagina che, se lavori da Versace, la sera sei in giro con dieci modelle a drogarti, quando in realtà sei a passeggio a Desio con il cane. O almeno, questo sono io.

D. Però la tua vera passione resta sempre la stessa?
R. Le cose che ho tentato di fare di più sono i lavori legati alla musica, perché davvero non c’è niente che amo di più. È la mia passione, lo scheletro su cui si muove tutto. Per me tutto è arrivato da lì e lì torna. Quando sento un disco, io so esattamente che copertina ha. Perché la musica c’è sempre, ma per me c’è sempre anche un vestito. E certi gruppi ammetto che mi piacciono anche per il loro contorno: per come sono fatti, per come si muovono, come si vestono, per il merchandise che fanno, come allestiscono il palco, che foto si fanno fare… Ecco io adoro fare parte di questo, adoro dare un’immagine alla musica.

D. E perché scegli spesso artisti indipendenti?
R. Io non sono di quelli che dicono: “Se sei famoso, mi fai schifo”. Non è che se fai un concerto a San Siro non mi piaci più. Però gli artisti underground hanno un grande vantaggio: sono liberi. Non hanno pressioni o vincoli. Sono freschi, fuori controllo. Possono fare quello che vogliono, a volte dicono cose comuni, a volte fastidiose, a volte incoscienti. E questo per me è una figata. Perché poi dagli artisti, dagli illustratori, dai grafici indipendenti trovi ispirazione anche da portare nel momento in cui lavori per un grande brand. Faccio un esempio: tu vedi, che ne so, una pubblicazione indipendente che è piegata in un certo modo, la vedi fatta a mano e poi tenti di trasferirla in una produzione in larga scala dove magari la puoi anche migliorare.

D. La concretezza è un tuo punto di forza. Sei sempre stato molto materico. So per esempio che le copertine di alcuni dischi le hai piegate a mano, una per una. E poi, qui non hai solo il computer, ma è pieno di strumenti.
R. La matericità arriva sempre dallo skate: con lo skate cadi, ti fai male, monti e smonti la tavola e le rampe. E poi mio nonno era un falegname, mio papà ha fatto l’idraulico tutta la vita. Tutte le prime rampe da skate le ho fatte con mio papà. Quindi la fisicità secondo me arriva da lì.

D. Ed è per questa esigenza di “muovere le mani” che hai iniziato a fare serigrafie?
R. Ho iniziato a fare le serigrafie perché lavorare per i clienti è bellissimo però, a volte, anche no. A volte è bello fare senza brief, fare cose che siano fuori controllo. Della serigrafia mi piace tantissimo il fatto che con il colore produci una grafica in serie, in cui però c’è sempre l’imprevedibilità dell’errore.

D. E come hai imparato a farle?
R. L’interesse è nato quando volevo stampare magliette e poster. Nel 2004 sono andato a San Francisco e Chuck Sperry di Firehouse mi ha spiegato tutto sulla poster-art e la serigrafia. Poi per dodici anni tutte le estati ho seguito dei workshop alla Central Saint Martin School Of Art a Londra, dove fanno corsi legati alla stampa, corsi di serigrafia basica su carta e tessuto. Ma anche “Preparazione avanzata dei telai serigrafici” presso la East London PrintMakers… Insomma, robe molto nerd, a cui eravamo iscritti in tre.

D. Questa necessità di esprimersi liberamente è un atteggiamento che potremmo definire da artista. Come reagisci se ti chiamano così?
R. Artista no, non mi ci sento. Potrei dirti che c’è dell’artisticità in quello che faccio, al massimo. Per me uno che fa l’artista è uno che non deve giustificare in nessun modo quello che fa, uno che fa una statua di wurstel e se ne frega del fatto che marcirà o se piacerà o meno.
Per chi fa comunicazione è diverso.
Io ad esempio mi sento libero, ma nella mia mente è come se fossi il cliente di me stesso, perché tento sempre di darmi una spiegazione. E, comunque, l’unico che mi chiama “il grande artista Paolo Proserpio” è Auroro Borealo!

D. Fra i tanti incroci della tua vita c’è anche Blossom.
R. Sì, Giacomo (Frigerio) è un mio coetaneo. Abbiamo frequentato per tanto tempo le stesse realtà, eravamo nel giro punk rock. Ai tempi non c’era internet e ti vedevi sempre agli stessi concerti: noi avevamo gli stessi interessi e pian piano ci siamo conosciuti. Oggi ammiro il suo coraggio: ha costruito una cosa grande, con tante responsabilità.

D. Come saprai, il purpose di Blossom è “We fight for Beauty, to make the world a better place”. Che cos’è per te la bellezza?
R. Per me il bello e il brutto universale non esistono, sono una cosa che evolve, anche di giornata in giornata. Ti faccio un esempio: se adesso questo lampadario, che mi piace tantissimo, cade e ti uccide, probabilmente quando lo rivedrò dirò: “Questo lampadario mi piace un po’ meno”, no? Poi magari fra vent’anni mi dimentico che ti ha ucciso durante l’intervista e dico: “Però, sai che ‘sto lampadario è davvero figo?”. Ecco. Questo vale anche per le città, per i cibi, per i dischi… Perché il gusto evolve! Pensa a quando vediamo le nostre foto di vent’anni fa e diciamo: “Guarda come ero vestito male!”. Oppure quando pensi a dei gruppi che ascoltavi quando eri teenager e dici: “Ma che merda era?!”.
Poi, se una persona la cosa più creativa che ha fatto nella vita è vedere il Grande Fratello Vip, penso che, in qualsiasi cosa che penserà o produrrà, purtroppo, pescherà solo da lì, e quindi il risultato avrà dei limiti. Questo per dire che secondo me il bello arriva quando hai delle contaminazioni, che vuol dire anche semplicemente che hai osservato e assimilato tanto. E, quindi, quello che produci si capisce che ha qualcosa dietro, una ricerca, qualcosa di profondo che poi, di fatto, è tutto il tuo bagaglio culturale.

D. E tu come rinnovi il tuo bagaglio culturale?
R. Mi piace guardare un sacco di cose, a volte anche per capire che non vanno fatte. Poi non so, se vedo un telefilm e compare un titolo iniziale che mi piace, me lo segno facendo una foto con l’IPhone. Poi ci sono cose che guardo più spesso perché ne sono mega fan. Per esempio, Art Chantry mi piace tantissimo: è un grafico che fa dei packaging assurdi, dove la parte analogica è fatta a mano e molto presente. È quello che ha fatto Louder than love dei Soundgarden, ha lavorato per The Mono Men, Sonics, Mudhoney per SubPop ed Estrus Records. Io vorrei tantissimo andare a incontrarlo a Seattle. Però ci sono anche altri che ammiro: Vaughan Oliver (scomparso nel 2019, con cui ho fatto un workshop a Londra) Stephan Sagmeister, Robert Beatty, Swifty, Broken Fingaz, David Carson, M/M Paris…

D. Da oltre 20 anni sei docente allo IED. Cosa consigli a chi vorrebbe fare il… designer o grafico? Tu quale definizione preferisci?
R. Io preferisco dire grafico. Perché il designer mi sembra sempre una persona che fa degli oggetti tridimensionali, tipo una sedia o una borsa. Invece il grafico mi riporta più delle cose piatte…anche se il packaging poi non è piatto, però… Be’, preferisco grafico.

D. Allora, cosa consigli a chi vuole fare il grafico?
R. Come prima cosa, uno deve essere coraggioso e capire se ha veramente voglia di fare questo lavoro. Se è disposto a tutto per scoprire cose nuove, se compra libri, naviga per ore, cerca su Instagram… Ma non perché se lo impone, perché quella è la cosa che gli piace fare di più, perchè ha una sete pazzesca di tutto quello che succede in questo settore!
E poi, consiglio di cominciare a sporcarsi le mani subito. Quindi: tua cugina ha la pizzeria e ti chiede i biglietti da visita? Falli. E mi auguro che tu li sbagli tutti e capisca l’errore che hai fatto, così quando li farai per Nike saranno perfetti. Perché con pochi strumenti si possono fare cose fighissime, e sulle cose piccole si può sempre sperimentare, si è più liberi… Ma questo l’ho già detto prima… Va be’, sono andato lungo, scusate. Andiamo a fare un piatto di pasta?

E così ci spostiamo in cucina. E prima di mettere l’acqua a bollire, Paolo fa partire Milano, il disco di Daniele Luppi & Parquet Courts, e ci porta i cataloghi della sua mostra di foto Thank God I’m a Graphic Designer, 1999-2009. Ten years of rocknroll photos. La musica va, lui cucina, noi ripercorriamo i migliori concerti degli anni Novanta e Duemila, e pensiamo a quanta passione serva per “non essere un artista”.


Tutte le foto di questo articolo sono state scattate per Blossom da Ray Banhoff, scrittore e fotografo cresciuto in Toscana.
Per conoscerlo: questa la sua newsletter; questo il suo profilo Instagram.
E questo è il profilo di Paolo Proserpio.

Article / Communication
Gen 26 - 2023
Che cos’è l’omnicanalità?

Nel customer journey, il pubblico passa da un canale all’altro: tanti touchpoint che la brand experience deve saper raggiungere. Si chiama omnicanalità, e continuità e coerenza sono al centro della sua definizione.

Nel mondo della comunicazione esistono da sempre parole-meteora, ovvero termini che vivono brevissimi periodi di gloria per poi finire dimenticati come vecchi scarponi in soffitta. Pensiamo, per esempio, al fervore attorno al mobile marketing degli anni 2010 o all‘imprescindibilità di un profilo Snapchat per qualsiasi brand nel 2016.

Da qualche anno si parla molto di omnichannel approach. Un termine che sembra essere diventato sinonimo stesso di brand strategy, superando la prova del fuoco della moda per diventare un vero e proprio asset nella comunicazione di ogni brand. Se ne parla così tanto che, spesso, non ci si ferma neanche più a pensare al suo significato e, soprattutto, alle implicazioni che ha sul modo di fare comunicazione.

Con omnichannel approach si intende la gestione sinergica di tutti i touchpoint tra il brand e i clienti

Che cosa vuol dire veramente omnicanalità?

L’omnicanalità è la gestione sinergica di tutti i punti di contatto online e offline tra il brand e i clienti; punti che devono essere interconnessi tra loro.

Oggi sono tanti i canali che possono essere usati per mettersi in contatto con il consumatore: il sito web, i diversi canali social, i chatbot, le e-mail e le newsletter, ma anche gli assistenti vocali e le piattaforme di streaming, a cui si affiancano i media tradizionali e gli spazi fisici del mondo reale.

In questo panorama di multicanalità, il pubblico non è solo più esposto, ma tende a passare con semplicità da un canale all’altro. E, proprio per questo, ci si aspetta che i brand seguano questi passaggi, con una strategia omnicanale, ripresentandosi in modo sempre coerente e con messaggi aggiornati.

La vera sfida per chi fa comunicazione oggi – più che presidiare in maniera corretta molteplici canali – è dunque far sì che ognuno di questi risulti coerente con gli altri.

Il pubblico di riferimento deve infatti averne una percezione ugualmente soddisfacente. In altre parole, continuità e consistenza di brand attraverso tutti i touchpoint.

Ma qual è il segreto per costruire quella che viene definita brand consistency? Non esiste una formula magica, ma rigore e profondità di pensiero sono certamente una chiave. Pensare ai brand come a delle persone, può sicuramente aiutare in questo.

Facciamo un esempio.
Ogni giorno incontriamo un gran numero di persone, ma sono pochissime quelle che rimangono impresse nelle nostre menti: di solito ci ricordiamo solo quelle che amiamo e con cui abbiamo instaurato una relazione. Di queste persone, poi, diventiamo capaci di riconoscere la voce e i tratti principali del carattere, tanto da immaginare facilmente le loro prossime azioni.

Lo stesso vale per i brand. Sicuramente il primo passo per ogni brand è quello di distinguersi e farsi riconoscere per rilevanza, fiducia e differenza. Il viaggio poi, però, è fatto di tanti percorsi, ognuno dei quali deve parlare al mondo di quella stessa sostanza per cui il brand si era distinto in primo luogo.

Ecco perché pensiamo che brand e comunicazione, non possano prescindere uno dall’altra. Definire attraverso una strategia chi è il brand, in cosa crede e con quale veste vuole presentarsi al mondo non è un’unica azione, ma un processo continuativo, che necessita di costanza e continui accorgimenti. Solo portando in comunicazione questi elementi, il brand può davvero prendere vita. Solo in questo modo possiamo creare esperienze in cui convivono senso e bellezza, capaci di promuovere interazioni positive tra le persone e i brand.

Se è dunque vero che esistono parole-meteora e mode, è vero anche che in comunicazione esistono metodi e approcci significativi.
Omnicanalità e brand consistency, oggi, fanno parte dei secondi.

Articolo: Camilla Beretta
Illustrazioni: Jacopo Riva

Article / Interview / Strategy
Gen 26 - 2023
I dati? Non sbagliano mai. Intervista ad Alessandro Scartezzini

Una grande passione per dati e statistiche. Ma sempre con un occhio umano. Perché il dato da solo non spiega tutto nel marketing. E non crea neppure valore.

Qual è il rapporto fra strategia, creatività e marketing? Per capirne di più abbiamo incontrato Alessandro Scartezzini, fondatore e amministratore di Webperformance, agenzia media digitale specializzata in performance marketing e, da gennaio 2023, agenzia partner di Blossom.

Con una laurea in economia, un passato da criminologo, una pubblicazione sul web marketing e oltre vent’anni di esperienza nel digitale, Alessandro è oggi una voce più che autorevole nel campo del performance marketing.

D. Dove nasce la tua passione per i dati?
R. Sono sempre stato un mezzo nerd… Per me, il miglior regalo è stato il Commodor 64 quando ho compiuto 10 anni! Quindi, diciamo che anche quando facevo economia sono sempre stato interessato all’informatica. La mia tesi è stata sulle frodi fiscali su internet. Dopo la laurea ho lavorato in un centro di ricerca internazionale di criminologia, occupandomi di reati informatici e poi sono approdato nel mondo digitale da imprenditore, fondando una delle primissime concessionarie di spazi pubblicitari sul web.

D. E oggi qual è il tuo lavoro?
R. Allora… Ovviamente, mia mamma non l’ha ancora capito! (ndr: ride) Io, in parole non tecniche, dico che aiuto gli imprenditori a migliorare il loro business attraverso gli strumenti online.

D. Qual è oggi per te la sfida più grande?
R. Per me la vera sfida di oggi è rendere il business digitale sostenibile.

D. In che senso? Puoi spiegarci cosa significa Performance Marketing nel 2023?
R. Fino a qualche anno fa era un concetto chiaro: significava portare risultati misurabili, come lead e conversioni, ai clienti. Ma oggi non è più così. Tracciare e attribuire delle azioni a dei singoli canali ora è molto difficile, perché un utente mediamente viene in contatto con il prodotto o con il brand molteplici volte prima di un acquisto o un lead. Noi, per esempio, registriamo che più del 60% degli utenti prima di acquistare dai nostri e-commerce è entrato in contatto con il brand almeno su 5 altri touchpoint.

Oggi ciò che porta il risultato non è l’investimento su Google o su Meta. Il risultato arriva quando l’investimento è un mix ottimizzato sui giusti touchpoint.

D. Quindi possiamo dire che il termine “performance” oggi indica qualcosa di diverso da 10 anni fa?
R. Sicuramente. Oggi si tende a ragionare in termini di performance in modo molto più ampio. E questo è molto interessante, perché ci permette di inserire nel nostro lavoro anche le campagne di brand awareness, che sul breve periodo sono poco misurabili, ma che sul lungo periodo hanno dimostrato di avere un ritorno enorme.

D. Nel tuo percorso c’è molta contaminazione di materie e saperi. Quanto è importante una formazione di questo tipo nel tuo campo?
R. Secondo me la contaminazione è fondamentale. Soprattutto nella complessità del mondo digitale. Pensiamo, per esempio, al diritto della privacy che, negli ultimi anni, è diventato il driver più importante nel modo di fare marketing digitale. Quindi, scienze umane, giurisprudenza, economia, statistica… sono tutte interconnesse e bisogna “masticarle”. Poi non si può sapere tutto, ovviamente. A me, per esempio, manca la sensibilità estetica. E, infatti, il mio art director non perde occasione per ricordarmelo. (ndr: ride).

D. E a proposito di art direction, arriviamo al dunque: qual è il rapporto fra i dati e la creatività? Come si sposano?
R. La verità? Non si sposano, perché si odiano! (ndr: ride). Parlando seriamente, io credo che si debba fare molta differenza fra le campagne di pura performance e le campagne di awareness. Nelle prime il creativo deve adattarsi: se un video di più di 15” in ADV non funziona è necessario arrendersi a questa evidenza. Nelle seconde, invece, la libertà creativa vale moltissimo.

D. Ti è capitato spesso che un dato smentisse una scelta? O comunque ti guidasse a prendere una decisione che non avresti mai pensato?
R. Certamente. I dati sono terribili. Hanno sempre ragione. Noi siamo smentiti di giorno in giorno. E proprio sulla parte creativa, se devo essere sincero…

Dopo ore di accapigliamento sul colore di un bottone, l’A/B test può dare una risposta inaspettata. E, in questi casi, anche l’art director più sicuro si arrende.

Però ecco, ovviamente bisogna saperli leggere, i dati. O, ancora meglio, bisogna prevederli. E questo è possibile solo con l’esperienza, che è un valore enorme in questo campo.

D. Quindi i dati non sbagliano mai?
R. No, non sbagliano. Gli errori ci sono, ma solo quando entrano in campo dei fattori che non permettono una corretta raccolta.

D. Quindi dobbiamo dedurre che il dato vince sempre sulla creatività?
R. Io non la vedo così. Credo invece che possa esserci una grande alleanza, pur nella continua discussione. Nelle campagne di brand awareness, per esempio, i creativi possono trarre grande vantaggio dai numeri: se una creatività è forte, i numeri confermano al cliente la necessità di budget per diffonderla. Gli spazi gratuiti per le creatività non esistono più: sono finiti i tempi in cui se avevi 100K follower, postando la creatività bella, la vedevano in 50K. Oggi se non investi, se va bene, la vedono in 100. Quindi i dati dicono che sulla creatività bisogna investire, sempre.

D. Questa sembra una buona notizia per i creativi…
R. Lo è. Ma non è la sola. La creatività, secondo me, resta la prima leva delle performance.

Saper usare le piattaforme è importante, saper usare il machine learning è utile, ma sono commodities. La creatività è ciò che ti fa vincere rispetto ai competitor.

D. Ovviamente una creatività confermata dai dati, giusto?
R. Certamente. Se i dati la smentiscono, non si discute, va cambiata.

D. Tutti i dati che analizzate per i vostri clienti riescono a darvi una panoramica dei trend?
R. I trend sono fondamentali: noi analizziamo sempre i trend di mercato e dei competitor di ogni cliente. Per esempio, la stagionalità gioca un ruolo di prim’ordine. La conoscenza e la comprensione dei trend è poi importante anche dal punto di vista predittivo: dobbiamo capire dove saremo durante la campagna e durante l’investimento. Per esempio, anche quando facciamo brand awareness misuriamo gli effetti dei nostri investimenti attraverso delle survey in collaborazione con Meta.

D. Quindi, quali saranno le tendenze del 2023?
R. Lo scenario per noi è questo. Non ci sarà una grossa crescita dei costi dei clic e delle acquisizioni, che si stabilizzeranno, e questo è positivo. Dal punto di vista economico, i trend varieranno da settore a settore. Il turismo manterrà una tendenza positiva, pur venendo da un anno davvero eccezionale. Nel food e beverage ci immaginiamo stabilità. Vediamo invece più difficoltà nel settore del fashion, dove il digital ha sofferto del ritorno degli acquisti sul punto vendita. Vediamo poi grandi opportunità per il B2B, dove ci sono anche molti nuovi strumenti per generare lead… Ma staremo a vedere…

Article / Editorial
Gen 26 - 2023
A proposito di creatività e strategia

La luce e il buio. Abbiamo usato questi due opposti per raccontare che cosa è Blossom oggi, chi siamo e come ci aiutiamo a guardare il mondo con un approccio diverso, tutti i giorni.

Dopo un anno fatto di grandi evoluzioni e cambiamenti, abbiamo ridefinito chi siamo e perché esistiamo. È stato un lungo lavoro che ha coinvolto tutta Blossom e che, in realtà, non smetteremo mai di fare.

La nostra è un’anima creativa, che guarda al mondo e alla vita di tutti i giorni vedendoci delle possibilità di bellezza. Una bellezza che scegliamo ogni volta di esprimere in modo diverso; una creatività che sfrutta i mezzi e gli strumenti esistenti, ma che è sempre pronta anche ad accogliere le novità, come la grande rivoluzione tecnologica dell’AI, che vediamo dietro l’angolo.

A questa, abbiamo affiancato uno sguardo strategico sul mondo e sul business, perché ogni scelta che facciamo sia guidata dalla ragione e, appunto, da un approccio strategico che ci aiuti a scegliere e agire con un giudizio fermo e ragionato.

Siamo tanti oggi, ma in fondo siamo due anime, che si fondono in una.

E rivelano possibilità che prima non potevamo né vedere né immaginare.

Per questo, la prima release dell’anno di Snap, la dedichiamo proprio a queste nostre anime: i sei articoli – con interviste, video e approfondimenti- raccontano e mostrano tante forme di creatività, che si affiancano alla strategia.

 

Ci è venuto a trovare un grande illustratore e amico di Blossom che ha mosso i primi passi con noi 15 anni fa, Nico189 aka Nicola Laurora. Dal nostro divano ci ha porta dentro il suo mondo, una dimensione affascinante dove si mischiano le copertine di Monocle e i graffiti sui treni dell’assolato sud Italia.

La nostra Head of Strategy Camilla Beretta riassume l’omnicanalità e lo fa con stile, lavorando spalla a spalla con Jacopo Riva e le sue illustrazioni.

Abbiamo registrato discussioni fatte in pause pranzo nel nostro HQ tra Dave, Head della Media House e Francesco Seveso, nostro psicologo e trainer di boxe. Il risultato è un podcast che parla di creatività, lavoro e funzionamento umano, che puntata dopo puntata ci porterà dentro mondi fatti di una materia invisibile ma che ha un impatto su tutti noi.

Alessandro Scartezzini, CEO di Webperformance, nostro partner in crime lato digital media, ci ha raccontato cosa, come e quando del mondo dei media.

E infine con “Di domenica mi vesto male” Matteo Mari aka Mario, con un video della serie “Who are you?”, ci regala un corto in cui presenta se stesso in una maniera pazzesca per tecnica, ritmo, stile e una profondità che mi ha fatto commuovere.

 

A gennaio a Milano il cielo è spesso grigio e le giornate buie. E allora, che questa lettura possa regalare anche a voi un po’ di luce.

Buon anno e buona lettura.

Video / Interview / Creativity
Gen 26 - 2023
Chat On the Couch with Nico189

Il divano di Blossom ospita l’illustratore Nicola Laurora, aka Nico189. In una delle sue rare interviste, ci ha parlato di graffiti, editoriali e NFT, fra creatività, curiosità e dedizione.

Quando un writer fa un graffito su un treno regionale, non pensa a quanto lontano il suo lavoro possa arrivare. È questo il caso di Nico189, nome d’arte di Nicola Laurora.
Cresciuto artisticamente tra i muri e i vagoni dei treni di Trani, si è negli anni affermato come illustratore dallo stile iconico, arrivando a lavorare con grandi brand internazionali, tra cui Apple, Swatch, Samsung, Ikea e McDonald’s, e ad essere selezionato dall’Association Of Illustrators di Londra.

In questa incredibile parabola, che va dai graffiti alle copertine di Wired, Monocle, The Telegraph e del Washington Post, in una continua contaminazione tra vernici spray e le ultime innovazioni digitali, Nico189 è passato anche da Blossom. Anzi, come lui stesso racconta, il suo lavoro di illustratore inizia proprio con noi.

In questo secondo episodio di Chat On the Couch, Nico189 racconta, con la consueta umiltà e ironia, della sua arte, dei suoi sogni e anche di alcuni chiodi fissi: dalla precisione maniacale alla necessità ricorrente di “andare a fare un muro”, passando per un’instancabile ricerca e voglia di mettersi alla prova.

Guarda il video.

Series
Gen 26 - 2023
Di domenica mi vesto male. Un corto di Matteo Mari

Il primo episodio di “Who are you?”, la rubrica in cui i creativi di Blossom si raccontano liberamente, è a firma di Matteo Mari. Ecco come un motion designer dalla sensibilità unica ha risposto alla semplice domanda: ma tu, davvero, chi sei?

Matteo Mari, classe 1993, è da qualche anno uno dei motion designer che animano la Media House di Blossom. Non si sa bene perché, ma tutti lo chiamano Mario. E alla domanda “Who are you?”, Mario/Matteo ha risposto con un cortometraggio originale, evocativo, poetico e, allo stesso tempo, estremamente tecnico.

Il suo è un racconto esistenziale in animazione 3D, reso straordinario dall’utilizzo di una tecnica sorprendente: Matteo ha infatti ottenuto questo effetto utilizzando un programma di animazione 2D.

Per i non addetti ai lavori, proviamo a spiegare meglio.
Per capire come è stata costruita ogni scena, bisogna immaginare che Matteo abbia costruito ciascuno degli oggetti tridimensionali che la compongono assemblando delle carte da gioco, ovvero con dei layer bidimensionali. O ancora, possiamo immaginare che li abbia costruiti come quando si ottiene un cubo disegnandone sei facce quadrate su un cartoncino, che poi viene ripiegato per diventare reale.

Un esperimento che lo ha messo davanti a migliaia di livelli di After Effects (c’è chi dice fossero oltre 3200!) e sfide continue, e che, con tutta evidenza, ha stimolato la sua creatività.
Guardare per credere.

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