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Article / Creativity
Ott 11 - 2023
Scatti che colpiscono. Dentro il lavoro di Steve McCurry, Dario Mitidieri e Joey L.

Tre stelle della fotografia internazionale attraverso il commento personale di Giuseppe Ceroni di Sudest 57.

TEMPO DI LETTURA 6′

Steve McCurry, Dario Mitidieri e Joey L. sono tre fotografi di grandissima fama che sono rappresentati in Italia dall’agenzia Sudest 57. Questi fotografi appartengono a tre generazioni diverse, provengono da nazioni diverse e hanno ognuno una storia differente. Tutti, però, hanno dimostrato lo straordinario potere che la fotografia può avere sulla società. I loro scatti hanno spesso avuto la capacità di accendere le luci dell’opinione pubblica su luoghi, culture, problemi e fragilità del nostro mondo.

Per scoprire come lavorano questi artisti e cosa li muove, abbiamo interpellato Giuseppe Ceroni che, con l’agenzia Sudest 57, lavora a stretto contatto con ognuno di loro. Occupandosi del settore della consulenza e produzione fotografica, Sudest 57 è infatti al fianco di questi fotografi nelle diverse fasi di sviluppo di specifici progetti commissionati, gestendo il loro rapporto con il committente e le parti contrattuali. Ecco allora, per chi ancora non li conoscesse, una breve introduzione su di loro.

© Steve McCurry. Dust Storm, India 1983

 

Steve McCurry: la leggenda vivente

 

Nato nel 1950, non ha bisogno di presentazioni. È il fotografo in attività più conosciuto al mondo, una vera e propria popstar, con un pubblico ampio ed eterogeneo per età e estrazione sociale. Oltre ad avere realizzato alcune delle immagini più iconiche del secolo (sua è la “Ragazza Afghana”), ha un archivio fotografico composto da una quantità e una qualità impressionante di scatti, frutto di in una carriera che dura da più di 40 anni. Fra i tantissimi lavori, anche il progetto personale Imagine Asia l’associazione di cui è fondatore Steve McCurry con sua sorella Bonnie. L’associazione, realizza progetti concreti in Afghanistan con un’attenzione particolare ai bambini e le donne.

 

Dario Mitidieri: dalla parte dei diritti

 

Nato nel 1959, è un fotografo italiano di caratura internazionale e uno dei più premiati. Il suo è un lavoro da vero reporter, senza trucchi, ma con un approccio gentile e sensibile verso i temi trattati. In ogni sua fotografia ci sono intrecci di storie, racconti ed emozioni. Mitidieri è uno dei grandi ad avere “la foto iconica”, proprio come Steve McCurry, Henri Cartier-Bresson, Elliott Erwitt, James Nachtwey, Gianni Berengo Gardin e pochi altri. La serie “Lost family portraits” ha acceso l’attenzione mondiale sulla condizione delle famiglie siriane rifugiate in Libano.

© Dario Mitidieri. Savita, the girl on the pole, Bombay 1992

 

Joey L.: oltre la fotografia

 

Nato nel 1989, è professionista dall’età di 17 anni, ed è uno dei giovani più interessanti nel panorama della fotografia internazionale. Il suo è un percorso significativo come ritrattista, storyteller e video-maker. Da sempre alterna produzioni commissionate al suo lavoro personale. Joey L. ha da poco pubblicato il suo ultimo libro “Ethiopia”, una raccolta di immagini di oltre di 10 anni di lavoro, ha ricevuto diversi riconoscimenti per il suo cortometraggio “People of the Delta”, e ha collaborato anche con molti brand impegnati in attività sociali.

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© Joey L. Novartis Annual Report. Tuya's family. Mongolia 2018

Davanti a questi profili e ai loro lavori, abbiamo dunque chiesto a Giuseppe Ceroni qualche commento.

D. Secondo te, che li conosci anche personalmente, che cosa accomuna questi fotografi?

R. Può sembrare banale, ma ciò che accomuna questi grandi autori è la passione per il loro lavoro. Per esempio, ho visto con i miei occhi Steve McCurry prendere la macchina fotografica e uscire in strada per una sua sessione di street photography dopo una giornata intensa di shooting per un cliente… E lo stesso vale per Dario che ha sempre la sua Leica con sè. Ma anche Joey L., lui è l’incarnazione della dedizione al lavoro in tutte le sue fasi.

Dopo una lunga giornata di shooting, Steve prende la macchina e esce per strada per continuare a scattare.

D. E cosa, invece, li rende unici?

R. È difficile definire questi autori in una parola sola, ma posso dire che Steve McCurry è unico per il senso della composizione e il sapiente uso del colore, ma anche per la sua capacità di vedere la scena. Dario Mitidieri per la capacità di saper isolare la situazione e restituire i confini di una storia. Joey è unico per la sua metodologia di lavoro, che gli permette di avere sotto controllo ogni fase.

D. Oltre alla foto iconica, al singolo progetto personale, qual è il senso e il vantaggio per un brand, una Fondazione o un’organizzazione di attivare un progetto con professionisti come loro?

R. Sudest 57 nasce nel 2002 proprio con l’idea di mettere in connessione i grandi autori della fotografia con le aziende e le fondazioni per creare collaborazioni speciali per entrambe le parti. Poter comunicare attraverso artisti riconosciuti, che condividono la loro visione restituendo immagini più personali e coinvolgenti con una sensibilità diversa dai fotografi pubblicitari o di moda, portando energia, stimoli nuovi e dibattiti anche all’interno della vita aziendale. Inoltre i progetti così realizzati, entrano poi a far parte della storia del brand o della Fondazione. Per gli artisti, oltre che per l’aspetto economico, somme che spesso vengono reinvestite progetti personali di ricerca artistica, è un modo di accettare nuove sfide e condividere la loro arte.

D. Come nascono i migliori progetti di fotografia sociale?

R. Non esiste una sola ricetta, ma esistono tanti esempi diversi che possono dimostrare che è possibile costruire progetti potenti, capaci di avere impatto sulla società.
Possono essere progetti di raccolte fondi, come per esempio quello realizzato tempo fa per l’associazione “Doppia Difesa” con Eolo Perfido, per cui ha ritratto 30 uomini che tengono in mano una scarpa rossa, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della violenza sulle donne.

Altri, come il già citato progetto “Lost Family Portraits” di Dario Mitidieri, che fu realizzato con l’organizzazione Cafod e l’agenzia M&C Saatchi per raccontare la crisi dei rifugiati siriani.

Ma anche progetti totalmente sostentuti da un brand, con uno scopo informativo/divulgativo, come il progetto di sostenibilità Tierra! di Lavazza, una documentazione fotografica realizzata in più di 10 anni da Steve McCurry; o quello di Joey L. per Novartis, che ha viaggiato in sei Paesi di quattro continenti per fotografare le storie che cambiano la vita di medici, scienziati e pazienti.

D. Le opportunità migliori nascono sempre e solo con produzioni nuove?

R. No, non per forza. Ricordo, ad esempio, la mostra “Children” organizzata a Bologna per la Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza proclamata dalle Nazioni Unite. in questa occasione furono selezionate alcune delle immagini di bambini più significative di Dario Mitidieri, Steve McCurry ed Elliott Erwitt, accendendo grande interesse mediatico sul tema e di pubblico. Venendo ad oggi, a novembre 2023 ci sarà GoodstArt la seconda edizione di un importante progetto charity con il mondo dell’arte. L’asta, realizzata con Christie’s e Triennale Milano raccoglierà fondi per il Centro di Riabilitazione neuromotoria per bambini che Fondazione Tog inaugura in autunno a Milano. Quattro dei nostri autori – Dario Mitidieri, Susi Belianska, Eolo Perfido e F31 – hanno donato ciascuno una fotografia a loro cara del loro archivio.

La fotografia ha la forza unica di poter trasmettere un messaggio in un istante ma si può anche rimanere a guardarla per ore.

D. E tu, credi davvero che la fotografia possa agire per il cambiamento?

R. Sì, io credo che un’immagine possa davvero trasmettere messaggi efficaci e agire sul cambiamento. O meglio, è già successo.

Article / Creativity
Ott 11 - 2023
La forza statica della fotografia. Intervista a Giulio Di Sturco

Il vincitore di tre World Press Photo sul suo attuale lavoro: “Non mi importa della fotografia. Mi importa quello che una persona trova oltre le mie foto”.
Leggi l’intervista.

TEMPO DI LETTURA 10′
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Aerotropolis© Giulio Di Sturco

Giulio Di Sturco è uno dei fotografi di reportage più importanti d’Italia. Con i suoi scatti ha raccontato storie da tutto il mondo. Il suo “sguardo” ha spesso la straordinaria capacità di obbligare lo spettatore a fermarsi e domandarsi “Cosa sto guardando?”.

Lo raggiungiamo in video-call. Lui è collegato dal suo studio di Arles, capitale europea della fotografia. L’incontro è digitale, ma di Giulio ci arriva subito la verità, la concretezza. Sarà che è agosto, fa caldo e siamo tutti più rilassati, sarà quel suo accento ciociaro, ma nel giro di pochi secondi ci sentiamo a casa. E non una casa qualunque, ma la casa di un maestro della fotografia internazionale. Così ne approfittiamo, e iniziamo con una domanda che possa portarci dritti dentro la sua vita.

Aerotropolis© Giulio Di Sturco

D. Che cosa abbiamo interrotto con questa chiamata, Giulio?

R. Ti do due risposte, una meno formale e una più formale. La prima è che mia moglie e mia figlia di 4 anni sono andate in vacanza e quindi mi stavo godendo il silenzio e la solitudine (ndr: ride). No, in realtà sto editando un libro su un lavoro che ho finito… Cioè, non so ancora se è davvero finito, ma deve essere messo in ordine. È un progetto sulle città aeroporto (ndr: il progetto è Aerotropolis) che ho iniziato nel 2014. Ora ho stampato tutte le foto e le sto selezionando. Poi arriverà una curatrice di arte contemporanea che mi aiuterà a mettere insieme i pezzi. Sai, sui progetti di lunga durata, uno sguardo esterno è fondamentale. A me sembra sempre che manchi qualcosa, ma non è detto che sia così…

D. Che bella notizia! Ma prima di parlare di futuro, vorrei tornare alle origini. Quando hai capito che saresti diventato un fotografo?

R. Io vengo da quattro generazioni di fotografi. Sono di Roccasecca vicino a Cassino, un paese del basso Lazio, e durante la celebre battaglia di Montecassino il mio bisnonno faceva le foto ai soldati che scappavano dalla guerra. Poi mio nonno e i miei genitori hanno proseguito: loro avevano uno studio di paese che faceva ritratti. Ma all’inizio, come è normale, io escludevo questa ipotesi. Poi sono andato a studiare allo IED a Roma, e lì ho incontrato Angelo Turetta. Lui, che è uno dei fotografi di reportage più importanti d’Italia e un celebre fotografo di scena, ha un’energia, un modo di portarti dentro le storie, dentro il reportage, che mi piaceva parecchio. Lui è stato la luce che ha illuminato tutto.

D. Te lo ricordi il tuo primo lavoro di reportage?

R. Come no! Finita la scuola mi sono trasferito in Canada. A quel tempo andavano di moda i “city portrait”. Io andavo in giro e scattavo, e nel frattempo lavoravo con un fotografo di matrimoni italiani a Toronto. Mi vedevo questi matrimoni assurdi e giravo la città. Però più che “city portrait” io, di fatto, documentavo la mia esperienza… Quando poi sono tornato a casa, ho messo insieme il lavoro e l’ho inaspettatamente venduto ad “Amica”, un magazine che ai tempi faceva molti reportage. E quindi, da là, ho detto: “Figo!”. E ho cominciato a fare avanti e indietro dal Canada e dagli USA: andavo, scattavo, tornavo e vendevo i reportage. E così poi sono entrato nell’agenzia Grazia Neri.

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Ph. Giulio Di Sturco

Per me un progetto fotografico è come un film: devo avere una trama, raccontare una storia.

D. Tu hai sempre raccontato storie con le tue foto. Perché?

R. Sì. È così. Io non ho mai fatto cronaca pura, news. E non sono nemmeno mai riuscito a pensare a una foto singola. A me non interessa la bellezza della foto in sé. Ho sempre voluto mettere insieme delle foto per raccontare qualcosa.

D. Negli anni le tue storie erano via via sempre più “impegnate”. Come fotoreporter hai lavorato per tantissime Ong, per diverse agenzie delle Nazioni Unite e molte associazioni umanitarie. Come è successo?

R. È successo perché a un certo punto della mia vita mi sono trasferito in India. Per me è qui che inizia la mia vera carriera. In quel momento l’India era in completo boom economico. Tutti volevano storie sull’India e io ero un po’ diventato “il fotografo del sud-est Asiatico”. Prima ho cominciato a lavorare con il New York Times e il National Geographic e poi, da lì, sono iniziate le collaborazioni con Medici senza frontiere, Amnesty International, Save the Children e con alcune agenzie delle Nazioni Unite. Ed è stato con alcuni di questi lavori che ho conosciuto Blossom, peraltro… Ai tempi facevo foto in bianco e nero, con taglio molto drammatico.

D. Oggi i tuoi lavori continuano ad avere come oggetto tematiche sociali, ma hai completamente cambiato il tuo modo di fotografare. Perché?

R. A un certo punto, mentre ero in India, mi sembrava di rifare sempre le stesse storie. Avrebbe anche potuto andarmi bene: ormai sapevo quali foto funzionavano e come sostenere il lavoro di tante ONG. Ma temevo di andare un po’ con il pilota automatico, quindi, in quel momento, ho deciso di cercare altre soluzioni per parlare degli stessi temi.

A un certo punto della mia carriera ho deciso di cercare un linguaggio diverso, più metaforico.

D. È così che è nato il tuo progetto Gang Ma?

R. Sì, esatto. In quel momento ero interessato al cambiamento climatico e il Gange mi è servito per ribaltare il mio modo di fare reportage. Mentre prima io stavo in mezzo al Kashmir durante la guerra e tutto (troppo!) succedeva davanti a me, in questo caso mi ero messo sul Gange, dove non succedeva nulla. Lì non mi bastava piazzare la camera e fotografare al meglio tutto quello che di fatto già succedeva, lì dovevo scoprire il modo giusto per raccontare la mia storia, la mia idea.

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Gang Ma© Giulio Di Sturco

D. Ma perché sentivi così forte l’esigenza di trovare una nuova estetica?

R. Perché sentivo che c’era bisogno di nuove immagini per smuovere i pensieri delle persone. Quando si parlava di inquinamento delle acque, per esempio, in quel momento tutte le foto mostravano la bottiglietta di plastica in acqua. E quindi, secondo me, quella cosa lì non funzionava più. Bisognava trovare un modo più delicato, meno esplicito. O meglio, questo era quello che volevo fare. Quindi è nato Gang Ma, dove l’inquinamento è ciò che rende esteticamente belle le foto. Chiunque si può avvicinare a queste foto, attratto dai colori e dalle inquadrature, ma solo in un secondo momento si accorge che proprio la bellezza di colori è dovuta all’inquinamento. È sicuramente una fotografia meno immediata, ma per me più potente. Perché non è finita e lascia spazio di interpretazione prima, e di riflessione poi.

La fotografia non finita non è usa e getta. Richiede più tempo ma per me è più potente.

D. Da come la descrivi, direi una fotografia meno di reportage e più vicina all’arte contemporanea. Sei d’accordo?

R. Non saprei… Forse ora la mia fotografia occupa uno spazio intermedio fra il reportage e la fotografia fine art… Ma queste sono solo definizioni. Io, comunque, vengo dalla fotografia documentaria, dalle “cose vere”. Io devo farti sempre vedere una cosa reale. Però oggi voglio prendere una cosa reale e portarti in un’altra dimensione. Ma questo non vuole dire che non sia comunque una fotografia sociale o politica.

D. È questo che stai perseguendo anche nei tuoi attuali progetti?

R. Sì, per me è ancora così. Il fatto è che non voglio dire più se una cosa è giusta o sbagliata: siamo troppo esposti alle persone che danno dei giudizi senza realmente conoscere, e oggi è impossibile conoscere tutto. Per questo preferisco una fotografia non finita, perché rappresenta una “realtà” magari non conosciuta, magari ancora embrionale, e la porta all’attenzione delle persone.

Ti racconto un episodio: quando faccio delle mostre sulle città-aeroporto (l’ultima, recente a Padova), c’è gente che reagisce in una maniera super forte, gente che dice “Questo è l’inferno in terra!”; e altre che ne sono attratte, affascinate. Perché sono città finte, costruite, ma l’architettura è futuristica, ha una sua bellezza, dà l’idea di una città che funziona. Reazioni opposte alla stessa foto.

D. Come nascono i tuoi attuali progetti? Che cosa accende oggi la tua curiosità?

R. Mah, guardando i miei progetti con un po’ di prospettiva mi accorgo che sto lavorando sul futuro e sulle soluzioni che potrebbero essere normalità fra venti, trenta o cento anni. Le città-aeroporto sono i luoghi dove potremmo vivere un domani: città in cui l’aeroporto è al centro e tutto ruota attorno ad esso; una modifica strutturale che è un cambiamento antropologico. La pediatria di Bristol, in cui sto per girare un documentario video, invece salva bambini prematuri di 22 settimane che vent’anni fa non avevano una chance di sopravvivenza. Poi c’è il progetto sullo spazio e, in stand- by, uno sul trans-humanism, con una serie di fotografie di umanoidi che ho scattato in Cina… Tutto ciò che si spinge al limite del futuro prevedibile, insomma. Ti direi che faccio science fiction, però con foto di cose reali.

Ph. Giulio Di Sturco
Ph. Giulio Di Sturco
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Ph. Giulio Di Sturco

D. Hai uno scatto a cui sei più affezionato?

R. Uno? No, no… Perché la fotografia mi annoia…

D. Posso scriverlo? Guarda Giulio che lo uso come titolo se mi dici così…

R. (ndr: ride) E fu così che smisi di lavorare… No, ma è vero! La fotografia in sé è uno strumento. Mi interessa molto di più il concetto, l’idea, il progetto. E sai che c’è? Ad esempio, con il progetto sullo spazio, ogni volta penso di aver fatto la foto migliore della mia vita. Poi torno, ne scatto altre e quelle mi piacciono ancora di più. Insomma, quando farò la foto perfetta sarà quando andrò in pensione.

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Ph. Giulio Di Sturco

D. E invece che cosa ti piace guardare? Dove trovi le tue ispirazioni?

R. Te ne dico un’altra forte? (ndr: ride) La fotografia non mi interessa. Non la guardo più.

D. Di bene in meglio, direi… Ma in che senso?

R. No, seriamente, guardo pochissima fotografia perché so che mi rimane in testa e poi, anche inconsciamente, finirei per riprodurre delle cose già fatte. E quindi preferisco guardare altrove. Leggo tantissima science-fiction, guardo tante serie tv, molta arte: i surrealisti, i futuristi e De Chirico sono una grande fonte di ispirazione.

D. Per te la fotografia ha un potere?

R. Eh… questa è una delle grandi questioni sulla fotografia. Se me lo avessi chiesto dieci anni fa, ti avrei risposto che la fotografia cambia il mondo, che noi reporter diamo la parola a chi non ce l’ha, ecc… La verità è che non ci credo più. Adesso io non voglio cambiare niente.

D. E allora perché lo fai, se posso permettermi?

R. Perché la fotografia mi dà l’opportunità di entrare in dei posti che sarebbero inaccessibili. Perché mi permette di tirare fuori un’idea e aprire un dialogo con le persone che la guardano. Perché, comunque, la fotografia ha un grande valore, quella che io chiamo “forza statica”, perché la fotografia richiede tempo a chi la guarda e obbliga a riflettere, a farsi domande. Per me, oggi, questo è più forte che dire “guarda, qui c’è la guerra: questi sono i buoni e questi i cattivi”. Io credo che una foto possa dire (o non dire) molto di più di questo.

D. Il tuo sogno futuro?

R. Di continuare a fare quello che faccio, con la libertà con cui lo sto facendo. Perché, devo dì (ndr: dice con forte accento), io sono contento di tutto quello che ho fatto: dei premi, delle persone con cui ho lavorato, dei lavori, dei libri… Io posso solo essere felice perché nella vita sono stato veramente fortunato…

Per fare il fotografo serve avere tanta curiosità, intelligenza e un sacco di fortuna.

D: E tu quando sei stato fortunato?

R: Il primo World Press Photo è stata completamente una botta di culo!

D. Davvero non te l’aspettavi?

R: Assolutamente no. Avevo 25 anni. Ho inviato la candidatura solo perché un’amica ha insistito. Io non lo volevo mandare… E invece ho vinto. E a quei tempi, una vittoria del genere era l’equivalente di un Oscar cinematografico; quindi, ha sicuramente cambiato il corso della mia vita… Sarei un ingrato se dicessi il contrario.

Che si sia trattato di fortuna o no, quel che è certo è che Giulio Di Sturco da quel giorno di premi ne ha vinti molti altri. E nel corso degli anni non ha mai smesso di cercare storie nuove e modi sempre diversi per raccontarci cosa succede nel mondo. Fra chiari e scuri, problemi e innovazioni, il suo è un punto di vista prezioso che risveglia curiosità e conoscenze. Perché comunicare, a volte, significa porre le domande giuste, più che dare risposte.

Article / Communication
Ott 11 - 2023
The good news. La comunicazione può fare la differenza

Jon Lidén sembra aver vissuto cento vite. Antropologo, reporter di guerra, giornalista, speech writer per il WHO e direttore comunicazione di una grande NGO, Lidén ha più volte sperimentato gli effetti che la comunicazione può avere sul mondo. Oggi è Senior Strategy Advisor di Blossom, e ci ha raccontato la sua straordinaria storia.

TEMPO DI LETTURA 2′

Nel mondo della comunicazione per il sociale, quando una campagna strategica funziona può sprigionare una potenza straordinaria. Convincere i policy makers, mobilitare la società civile, e riuscire a portare finanziamenti cruciali per cause sociali può letteralmente cambiare il corso della storia. Vi sembra esagerato? Vi basterà ascoltare le parole di Jon Lidén per capire che non lo è.

Jon Lidén, nato in Norvegia ma vissuto in tutto il mondo, oggi è Global Health Senior Strategy Advisor di Blossom e, più in generale, uno dei massimi esperti internazionali di campagne di mobilitazione e fundraising per le cause umanitarie, specialmente nell’ambito della salute.

Nel corso della sua intervista, Jon ci ha portato dal divano di casa sua a Ginevra alle Filippine, passando per l’Africa, la Cambogia, le guerre, i conflitti, la politica, le pandemie, i tavoli del WHO e i grandi eventi di charity. Ci ha raccontato di tutte quelle volte che la giusta combinazione di messaggi ricchi di senso e azioni hanno saputo innescare reazioni a catena positive e risultati tangibili per il bene comune. Ovvero, ci ha raccontato di tutte quelle volte che la comunicazione è stata un mezzo per generare un vero impatto e rendere, almeno in parte, il mondo un luogo migliore.

Article / Strategy
Ott 11 - 2023
I social media possono fare del bene? Insight e opportunità

Jeremy Bogen, Senior Social Media Strategist di Blossom, sul legame tra social media e cambiamento sociale. Visioni e consigli.

TEMPO DI LETTURA 9′

I social media rappresentano ancora uno strumento rilevante per il cambiamento? In una parola: sì. Anche se i tempi stanno cambiando.
Fino ad oggi è stato un percorso lungo e movimentato, ma non si può negare l’effetto profondo che i social media hanno avuto sui movimenti sociali e sul mondo.

La verità, però, è che raggiungere e coinvolgere il pubblico sui social media per il mondo umanitario è diventato oggi molto più difficile di un tempo e, per alcuni, anche proibitivamente costoso. Oggi, restare nel feed del nostro pubblico richiede un grande impegno e un team social media ben oliato con competenze nella produzione di strategie realistiche, creatività accattivanti, storytelling coinvolgenti, contenuti persuasivi e promozioni mirate.

Social Media is dead. Long live Social media!

Anche se alcuni lo sostengono, non siamo in una “post-social media era”. L’idea di una “post-social media era” è un’idea illusoria e lontana dalla realtà del mondo in cui viviamo. I social media fanno parte di ogni aspetto delle nostre vite. Sono il luogo in cui leggiamo le notizie, comunichiamo con gli amici e i familiari, in cui ci isoliamo sentendoci comunque connessi con il mondo.

L’idea di una “post-social media era” è solo uno degli argomenti amati dagli “esperti” che vogliono a tutti i costi prevedere cosa verrà dopo, quale sarà la nuova tendenza.

Ma pretendere di conoscere la “next big thing” è praticamente impossibile anche per chi siede alle riunioni esecutive di X, Meta, TikTok, Google o Linkedin.

Certo, c’è sempre qualcosa di nuovo in cantiere, come Threads, lanciato di recente e che forse avrà successo o forse sarà il prossimo Google+.

Ma insomma, la parte più eccitante riguardo alla “next big thing” è che nessuno la vedrà arrivare, proprio come è sempre accaduto.

Nuove sfide

La comunicazione attraverso i social media per le ONG e il no profit era un lavoro molto più semplice agli albori; chiamiamola l'”era pre-monetizzazione”. La crescita organica e l’interazione erano guadagnate sul “campo”, non pagate. Le nostre strategie erano incentrate semplicemente sull’essere “social”, con narrazioni ben fatte.
Oggi per queste organizzazioni la sfida è più difficile e richiede un team multidisciplinare di esperti in grado di coprire strategia, creatività, produzione, gestione dei canali e gestione dei progetti. Siamo stati costretti a metterci al servizio degli algoritmi, che alla fine determinano il contenuto del feed di ogni utente.

Grandi opportunità

La buona notizia, però, è che i social media rimangono un potente mezzo in cui le persone si connettono, condividono informazioni e raccontano storie che possono mobilitare l’attivismo, ispirando piccole azioni individuali che possono fare la differenza.

Il punto di riferimento in questo ambito è il columnist del New York Times, Nicholas Kristof. Per chi cerca ispirazione su come scrivere post sui social media, Kristof è uno dei migliori: la sua autenticità porta i lettori dritti dentro le storie.

Una volta, ad esempio, ha scritto la storia di una donna la cui vita fu distrutta dopo che le sue foto erano apparse su PornHub senza il suo consenso. Una situazione che si aggravò fino a portare la donna a perdere tutto. Kristof non scrisse la sua storia per chiedere donazioni, ma il suo post spinse così tante persone a dare il loro contributo che la donna riuscì in fretta a ricominciare da capo la sua vita. Ma non solo. L’indignazione causata dall’articolo generò reazioni così forti verso PornHub, che si trovò costretto a modificare le sue policy.

Che cosa ci insegna questo episodio? Che nessuna storia è troppo piccola, perché non si sa mai chi può ascoltarla. E anche se sono solo poche persone, queste possono comunque fare la differenza. Si può essere storyteller di persone e cause, anche solo con un post di testo. Si può farlo con compassione e rispetto per il soggetto. E quando il pubblico commenta, si può sempre trovare il modo di dire come aiutare.

L’impatto positivo sui social media non deve essere definito da milioni di visualizzazioni o migliaia di interazioni. Certo, gli algoritmi su Facebook e Instagram rendono più difficile raggiungere ampie porzioni di pubblico, ma questo non significa che non valga la pena di continuare a scrivere e comunicare.

QUINDI, METTIAMOCI AL LAVORO

La domanda che spesso emerge quando parliamo di idee e strategie con i clienti è “Quali sono le tendenze attuali sui social media, cosa dovremmo fare?”. La risposta è che qualunque siano le tendenze e i nuovi strumenti, l’attenzione deve essere sul contenuto e sulla narrazione, per sensibilizzare e coinvolgere.

I NOVE PASSI DI UNA CAMPAGNA SOCIAL MEDIA EFFICACE

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    1. 1) Definisci obiettivi realistici e significativi. Questo è il momento di determinare se i social media sono la piattaforma giusta.

 

    1. 2) Crea la tua mappa di pubblico, ovvero:
      • – Definisci i tuoi principali pubblici target
      • – Determina l’obiettivo della campagna per ciascun gruppo di pubblico
      • – Determina il miglior canale per raggiungerli
      • – Decidi che tipo di contenuto devi creare per raggiungere e coinvolgere ciascun gruppo di pubblico
      • – Definisci i KPI per ciascun pubblico target

 

    1. 3) Sulla base di ciò che emerge dai passaggi uno e due, definisci la creatività della campagna che risuonerà meglio con la tua mappa di pubblico, sviluppa i messaggi chiave di massima e ovviamente un hashtag.

 

    1. 4) Definisci la tua strategia di contenuto basata su una narrazione che spingerà il tuo pubblico a rimanere coinvolto durante tutta la campagna.

 

    1. 5) Crea un calendario editoriale realistico e definisci gli asset di cui avrai bisogno per eseguirlo.

 

    1. 6) Determina se sarà necessaria una strategia di promozione a pagamento. Se è necessario, definisci il budget, i canali e i contenuti che saranno prioritari per questa operazione.

 

    1. 7) Crea un elenco di sostenitori, partner e influencer che possono amplificare la tua campagna.

 

    1. 8) Quando la produzione degli asset è completa, crea un kit per la tua lista di amplificatori.

 

  1. 9) Lancia, misura, aggiusta e… Goditi il viaggio!

BENE VS MALE

Oggi viene giustamente prestata molta attenzione agli impatti dannosi dei social media: hate speech, politica divisiva, bullismo, frodi, fake news,… L’elenco delle storture è davvero troppo lungo. Ma se un’ONG è credibile, i suoi messaggi sono concisi, basati su fatti, dati solidi e informazioni da fonti affidabili, allora può affrontare tutti questi rischi.
Facciamo un esempio.

Diciamo che un’ONG focalizzata sul clima sta conducendo una campagna di sensibilizzazione sulla necessità di fermare l’uso del carbone. Il comportamento tipico degli algoritmi è il seguente: le persone che sono d’accordo con i messaggi dell’ONG vedranno il loro contenuto e, se è convincente, interagiranno e gli algoritmi premieranno l’account/i post con maggiore visibilità.

Tuttavia, se un gruppo pro-carbone vede la campagna e il suo successo, è possibile che questo gruppo decida di creare una contro-campagna piena di messaggi falsi su quanto sia innocuo il carbone. Se poi, questo gruppo pro-carbone dovesse decidere di investire sui suoi contenuti… Voilà, la battaglia social tra il bene e il male ha inizio!

Che cosa può fare allora la ONG? L’ONG voleva solo aumentare la consapevolezza sul cambiamento climatico e ora si trova a combattere una battaglia sulla verità.
Piuttosto che attaccare l’altra parte o rispondere in modo negativo o emotivo ai commenti, la migliore strategia è rispondere in modo educato e professionale. L’ONG dovrà creare una risposta standard basata sui fatti che includa link pertinenti alla fonte delle prove supportate dai dati: usare un tono privo di emozioni è cruciale, non si attacca mai il mittente, si affronta semplicemente il messaggio falso. E, non ultimo, in tutti questi casi, bisogna segnalare sempre qualsiasi post che violi le politiche della piattaforma riguardanti le fake news e le informazioni false.

Un gioco a lungo termine

I social media devono essere considerati come un gioco a lungo termine, in cui dobbiamo rimanere attivi, presenti e reattivi. E soprattutto, essere disciplinati: una strategia di contenuto efficace deve offrire in modo coerente contenuti avvincenti e rilevanti. Se un post è progettato solo per informare alcuni interessati, allora l’email è probabilmente il canale migliore. L’impegno a lungo termine in questa prospettiva darà molti frutti, specialmente per il posizionamento dell’identità della ONG in questione.

TENDENZE EMERGENTI

Gli ultimi dati fanno emergere una certa insoddisfazione degli utenti nei confronti degli algoritmi che curano i loro feed. Molte persone, ad esempio, hanno deciso di tornare “ai vecchi tempi”, passando più tempo nei gruppi e nelle comunità più piccole. Persino Mark Zuckerberg ha parlato di come le persone stiano cambiando le loro abitudini: secondo Facebook, più di 1,4 miliardi di persone partecipano attivamente ai Gruppi ogni mese.

E i canali Telegram e Discord sono diventati enormemente popolari e stanno guadagnando terreno tra le persone che seguono le notizie in tempo reale, proprio come fanno su Twitter (X).

Per le organizzazioni umanitarie, questa è una buona notizia perché possono connettersi direttamente con il loro pubblico creando gruppi che potranno crescere in modo organico anche grazie ai follower più coinvolti.

Naturalmente, i Gruppi Facebook per il cambiamento sociale non sono un nuovo fenomeno. Basti pensare a uno dei migliori casi studio per l’impatto sociale, ovvero il movimento Fridays for Future di Greta Thunberg. In questo caso, la strategia di campagna decentralizzata è stata geniale ed efficace: Greta era la voce principale, ma il potere virale è avvenuto grazie all’azione di singoli individui nelle comunità di tutto il mondo che hanno organizzato centinaia di gruppi locali di Fridays for Future su Facebook.

Grazie della lettura e… ci vediamo online, magari nel prossimo Gruppo Facebook!

Jeremy Bogen

Photo Gallery / Creativity
Ott 11 - 2023
Illustrazione. Simple, but significant

Se quello della semplicità è un desiderio umano del tutto legittimo, nella comunicazione è la conditio sine qua non. Che ci parli da un billboard o dalla copertina di un report, deve colpirci nella sua forma, visiva o verbale, più semplice. Che non vuol dire banale.

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Detroit, 2013. Un uomo acquista una casa di fianco alla ex moglie e fa installare, in giardino, una statua con un enorme dito medio, rivolto verso la finestra della donna. Il messaggio va dritto come un proiettile, colpendo, in modo chiaro e inequivocabile, il core target (la ex moglie) ma anche il resto del mondo. Una vendetta becera? Un gesto deprecabile? Probabilmente sì. Ma anche semplice ed efficace, come solo un dito medio sa essere. E come la comunicazione dovrebbe essere.

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Nel mondo della comunicazione, infatti, la semplicità è la conditio sine qua non. Che ci parli da un billboard in metropolitana, da un post su Instagram o da un video di pochi secondi, la comunicazione deve arrivarci nella sua forma, visiva o verbale, più semplice. Che non vuol dire banale.

Dentro la complessità, fuori il bello.

Prendendo in prestito le parole di Bruno Munari, infatti: “Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere e per togliere bisogna sapere cosa togliere”. Ed è questo che siamo chiamati a fare, su qualsiasi progetto. Togliere. Semplificare. Ridurre alla forma più essenziale e visivamente accattivante, perché catturi lo sguardo e trasmetta un messaggio.

L’illustrazione è capace di dare vita a mondi paralleli in cui i concetti diventano semplici

Le illustrazioni sono la risposta a quel “Make it simple, but significant” che ossessiona chi lavora nel mondo della comunicazione. E allora, ecco qualche esempio di semplificazione ben riuscita.

UNEP

Il Multilateral Fund ha affrontato una delle sfide ambientali più urgenti di fronte a cui l’umanità si sia mai trovata. Per oltre tre decenni, ha guidato le Nazioni nella graduale eliminazione delle sostanze nocive che stavano riducendo lo strato d’ozono, scongiurando un cambiamento climatico che sembrava irreversibile. I traguardi raggiunti sono straordinari, ci sono intere pagine di dati che lo dimostrano. Ma come rendere questi dati comprensibili? Come raccontare trent’anni di sforzi, in meno di dieci pagine? Lo abbiamo fatto grazie alle illustrazioni, supportate dalla data visualization. Nel piccolo eco-sistema che abbiamo creato, il Multilateral Fund è, semplicemente, una mano. Una mano che, per anni, ha mosso, guidato, aiutato e dato vita a un cambiamento epocale.

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TMG – Think Tank for Sustainability

Disuguaglianza e povertà sono solo alcune delle ragioni dell’insicurezza alimentare, che affligge le aree urbane africane a basso reddito. Per garantire il diritto all’alimentazione, chiunque deve poter disporre di risorse fisiche ed economiche per aver accesso ad alimenti adeguati e mezzi per procurarseli, con particolare attenzione alle donne, considerate le più vulnerabili all’interno della società. In buona sostanza, l’intero sistema alimentare urbano deve essere ripensato, anche in un’ottica di inclusione e uguaglianza di genere. Le illustrazioni realizzate per il report di TMG-Think Tank for Sustainability, sono l’estrema sintesi di tutto questo. Nel percorso verso il progresso, le donne sono l’origine di un cambiamento il cui impatto si riflette, a cascata, sull’intera società.

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EIF

EIF, European Investment Fund, si occupa di sostenere la creazione, la crescita e lo sviluppo delle Piccole e Medie imprese, rendendo accessibili i finanziamenti e mettendo in contatto i piccoli imprenditori con i grandi fondi di investimento. Sono proprio le persone a diventare protagoniste dell’Annual Report 2022, grazie alla collaborazione con Alberto Seveso, illustratore. Ogni capitolo ci mostra un ritratto. Ogni ritratto, realizzato con l’intelligenza artificiale in tempi non sospetti, è un collage a più livelli. Ogni livello racconta una sfaccettatura della tematica affrontata nel singolo capitolo. Una matriosca di contenuti che ci colpisce in tutta la sua potenza espressiva.

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UNWOMEN

È strano pensare che le differenze di genere emergano anche nel rapporto con l’ambiente, ma è così. Nel suo Annual Report, UNWOMEN evidenzia come il cambiamento climatico abbia un impatto diverso su uomini e donne, di quanto le donne dipendano dalle risorse naturali, specie nella zona dell’Asia-Pacifico in cui l’accesso all’acqua potabile è un problema, e di come abbiano meno potere decisionale per influenzare le politiche ambientali. Un tema pieno di sfumature, sintetizzate nella cover del report, grazie a un’illustrazione in cui imprenditoria femminile, ambiente e risorse naturali trovano il loro equilibrio.

Article / Inspiration
Ott 11 - 2023
Consigli non richiesti

Scorri Netflix, scrolla il Kindle, cerca quanto vuoi: arriva sempre il momento che non trovi niente di bello e ti rassegni. Decidi allora di ascoltare la musica, ma le tue rodatissime playlist hanno iniziato a darti la nausea. Capita a tutti noi.
Ecco allora una piccola e rapida selezione di cose che meritano di essere viste, lette, ascoltate. Consigli non richiesti, talvolta disordinati e magari discutibili, ma validi per una ragione fondamentale: hanno lasciato un segno in qualcuno di noi. E chissà che non lo lascino anche a te.

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Fino a dove vedono, ascoltano, leggono gli esploratori.

Per spingersi alla scoperta di mondi sconosciuti, servono fiuto e una grande curiosità. Aspetti che sono molto importanti nel lavoro delle nostre Tendering Specialist.

Ecco allora i loro consigli non richiesti: letture e ascolti che ci portano verso luoghi lontani e realtà poco note. Per spingerci a riflettere sul nostro mondo e sulla condizione umana.

GRAPHIC NOVEL

Pyongyang: A Journey in North Korea
2004

Narrazione spigliata e disegni emozionanti. La graphic novel di Guy Delisle porta in Corea del Nord, con un viaggio nella quotidianità di chi vive sotto regime, tra restrizioni, propaganda e isolamento. Pagina dopo pagina, ci si addentra sempre più in una realtà per molti versi inaccessibile. Una lettura che buca la propaganda e fa indossare occhi più consapevoli di quel che accade in un sistema politico autoritario. Da scoprire.

LIBRO

L’ordine nascosto – La vita segreta dei funghi
2020

Alzi la mano chi sa che i funghi hanno un ruolo fondamentale nell’ecosistema terrestre. Sì: interi ecosistemi fanno affidamento su questi organismi bizzarri e misteriosi, e Merlin Sheldrake ci fa esplorare il loro mondo silenzioso e nascosto, verso una nuova e spiazzante prospettiva sulle relazioni ecologiche. Un libro sul senso nascosto del mondo naturale. Da cogliere.

RUBRICA

Kareem.Substack.com

Un appuntamento sulla piattaforma di newsletter Substack tenuto da Kareem Abdul-Jabbar. In queste colonne, si scopre un lato poco conosciuto di uno dei più grandi giocatori di basket di tutti i tempi. Kareem ha infatti un dono per le parole. Offre un approccio fresco, empatico e stimolante alle questioni più scottanti di politica, sport e cultura pop, soprattutto negli USA. Da marcare stretto.

PODCAST

Corpi liberi
2022

La storia di una madre che fa i conti con la transessualità della figlia e la scoperta di un mondo di cui capisce poco. Un racconto vero e intenso, che traccia un complicato percorso che non nasconde le difficoltà e il dolore incontrati. Da comprendere.

SERIE TV

Essere umani – Lo spettro di Mumbai sul nostro futuro
2022

Facciamo finta di essere a Mumbai nel 2050 e di trovarci di fronte agli effetti del cambiamento climatico. Con questo espediente narrativo, Paolo Trincia tesse un reportage sconvolgente che, partendo dalle storie delle persone, fa un ritratto appassionante e illuminante della metropoli indiana e del prossimo futuro dell’umanità. Da rimanerci.

FILM

Triangle of Sadness
2021

Il titolo del film allude a un’espressione, utilizzata nel mondo della moda, che indica il triangolo formato dal naso e dalle labbra di un modello, considerato l’elemento chiave per un aspetto attraente. Questa black comedy, cinica e ironica, racconta il privilegio nella società moderna attraverso la storia di un viaggio in crociera, un naufragio e il ribaltamento delle classi sociali. Da considerare.

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